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Il capitale dal volto umano

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Il capitale dal volto umano

C'è una rivoluzione in atto all'interno del cosiddetto primo mondo e forse non ce siamo accorti. È probabile che sia così perché non sta assumendo il passo di un'ondata dalla potenza devastante oppure perché non gli si crede fino in fondo, o ancora per semplice miopia.
Il lavoro sta cambiando radicalmente. La struttura del lavoro, l'organizzazione del lavoro. Questo cambiamento segue due direttrici primarie: il tempo e lo spazio. E cioè l'orario di lavoro, la giornata lavorativa, il tempo libero da una parte; i luoghi fisici, l'ufficio dall'altra. I due aspetti sono intrinsecamente collegati tra loro pur mantenendo una loro indipendenza concettuale. Tempo. Ormai da qualche anno assistiamo al seguente fenomeno: il capitale discute su come debba cambiare la struttura del lavoro.

Discute e poi, il capitale essendo il capitale, decide. Esempi: Carlos Slim propone una settimana lavorativa di tre giorni e undici ore al giorno. Microsoft dopo aver abolito l'orario fisso elimina anche l'obbligo di presenza. La Volkswagen, di cui si ricorda l'iper-citato accordo di riduzione dell'orario settimanale del 1994, segue l'esempio di Deutsche Telekom sancendo come diritto acquisito la “non reperibilità” del lavoratore (adottata anche da Bmw) e accende i server aziendali mezz'ora dopo l'apertura delle sedi per spegnerli mezz'ora prima della chiusura. Netflix adotta una vacation policy da prima regola del Fight Club: non esiste alcuna vacation policy. Il lavoratore prende tutte le vacanze che desidera, quando e come vuole, senza neanche doverle comunicare ai manager, di fatto scomparendo nel nulla. Sir Richard Branson la fa immediatamente sua, forte dell'idea che alla Virgin «crediamo che le persone debbano essere incoraggiate a lavorare quando, dove e come vogliono».

Poi c'è Google, con Larry Page che si propone, nientemeno, di «uccidere le 40 ore settimanali». Ben Kaufman, 26enne Ceo di Quirky, inserita da Forbes nella classifica delle più promettenti società americane, informa i dipendenti via mail che «chiuderemo l'intera macchina per quattro settimane l'anno, una all'inizio di ogni quarto. La nostra tesi centrale è che questo significherà lavorare meglio, con un team emotivamente più bilanciato». Bart Lorang, capo di FullContact, provider di contact management con base a Denver, instaura la “paid, PAID vacation”: 7.500 dollari extra all'anno per ogni dipendente che decida di andare in vacanza (vacanza già retribuita) in accordo alle seguenti regole: 1. Devi andare davvero in vacanza; 2. Devi disconnettere; 3. Non puoi assolutamente lavorare. Si potrebbe continuare a lungo con la lista della spesa, ma insomma il concetto è chiaro. Non è nemmeno che sia del tutto nuovo: già Henry Ford negli anni Venti ridusse da 6 a 5 le giornate lavorative ai suoi dipendenti portando le ore settimanali al totale di 40. Gli diedero del pazzo, dieci anni e innumerevoli record di produzione dopo, le 40 ore furono adottate da tutti.

Quando si discute del capitale nel XXI secolo, del lavoro nel XXI secolo, si discute di 24-hour society: nessuna distinzione tra work e non-work time; migrazione dalla settimana lavorativa standard a forme non standardizzate della stessa; turni e part-time; settimana compressa; weekend lavorativi; lavoro a chiamata eccetera. La 24-hour society nel mondo più sviluppato è un fatto acquisito. Difficile tornare indietro. Ed ecco che la riflessione sulle risposte a questo tipo di sollecitazione potenzialmente totalizzante per il lavoratore (alcuni la definirebbero “coercitiva”) nasce, cresce e vede la luce esattamente all'interno dei confini del capitale stesso. Non fuori, non nel mondo dei grandi ritardatari degli ultimi 20 anni, le associazioni sindacali; ma dentro, e con un discorso sempre più centrato su parole come “individuo” e “felicità”.

La riflessione è semplice: se l'essere umano non è felice, l'essere umano si spegne, non è creativo, non produce nulla di buono. Ecco il capitale dal volto umano, che tenta di dare risposta ai bisogni di benessere (lavorare in condizioni migliori) ed equità (per semplificazione brutale: lavorare meno, lavorare tutti). Ecco infine, anche il capitale come tarda realizzazione del sindacalismo. Si potrebbe chiudere un cerchio, o anche più d'uno, se soltanto si volesse.

A questo genere di discorso, due sono le obiezioni di scuola classica (soprattutto nelle componenti estremamente conservatrici delle nostre società):
1. Del complotto plutocratico. Ridurre gli orari, delegare al lavoratore la scelta dei modi e dei tempi e aumentare il tempo libero può significare una cosa soltanto: precarizzazione universale del lavoro.
2. Dello svilimento della dignità. In breve: se non sei più così fondamentale tanto che nessuno ti garantisce la tua bella scrivania, e quando vai in vacanza ciao, ecco che come lavoratore (e come uomo) sei svuotato di senso, dignità, rispettabilità.
È un errore di parallasse, essendo fallace il punto di vista che lo produce: chi la pensa così crede sempre che la riflessione che discende dal capitale al lavoro sia portatrice di instabilità e, in ultima analisi, di fregature. E quand'anche si producano delle conseguenze positive, esse sono sempre il risultato di una qualche eterogenesi dei fini coadiuvata dal colpo di culo del padrone. Si tratta di una concezione inconciliabile con quella che qui si cerca di rappresentare: e cioè che lungi il capitale dall'essere una taumaturgia, è invece fisiologicamente naturale che vengano prodotte continue e ripetute riflessioni al suo interno (in questo senso, assomiglia più a una psicanalisi). Quello che si vuole sottolineare è la capacità intrinseca del capitale di tentare di guarire alcune delle proprie storture (che non sono poche), e in particolar modo quelle che concernono la sua unità di misura iniziale e finale, che è sempre e soltanto una: l'individuo. E quali siano i problemi principali dell'individuo in relazione al proprio lavoro non è certo un segreto: il salario, l'organizzazione, lo spazio-tempo (su questo non siamo poi così distanti dall'antica triplice salario, prezzo, profitto).

In Cubed – A Secret History of the Workplace, Nikil Saval, condirettore di n+1, rivista che si autodefinisce influenzata dalla teoria critica della Scuola di Francoforte, squaderna una formidabile cronistoria dell'ufficio come spazio fisico, indugiando particolarmente sui cubicle (da cui pare essere abbastanza ossessionato), quei moduli a pareti variabili che nelle intenzioni del loro ideatore, Robert Propst, avrebbero liberato le energie dei lavoratori non più costrette a rimbalzare senza privacy nel sottovuoto di quattro pareti statiche ma che nella realtà hanno rappresentato l'iconografia perfetta della tristezza più assoluta. Scrive Saval, che «almeno il 60 per cento degli americani attivi lavora nei cubicle e solo il 7 per cento ritiene di preferirli ad altri ambienti di lavoro. Il che significa che al 93 per cento di chi lavora nei cubicle – pari a circa 37 milioni di americani (dati riferiti al 2011) – non piace il proprio ambiente di lavoro». E come dargli torto, al 93 per cento e a Saval: i cubicle fanno schifo. Ripercorrendo la ricostruzione che l'autore fa dei luoghi di lavoro (ricostruzione il cui unico limite è forse quello di non andare molto oltre la cronologia) si scoprono moltissime cose, per esempio che le proposte di Slim o di Branson non sono nuove. Negli anni 70, un gruppo di ingegneri dell'Ibm svilupparono il “non-territorial office”, un open space non soltanto privo di muri e divisori, ma privo anche di postazioni di lavoro permanenti. Oltre a enormi tavoli comuni, i lavoratori potevano beneficiare di “quite areas” dove rifugiarsi per “staccare” o concentrarsi maggiormente. Insomma, Google non ha inventato nulla. Scrive Saval che gli ingegneri «approcciarono la nuova organizzazione con trepidazione e sconcerto», ma alla fine registrarono che «tutti i dati sulla comunicazione interna erano migliorati. Il non-territorial office fu un successo».

Una seconda dimostrazione, di identico rigore scientifico, proviene dalla testimonianza di un'anonima signora dietro a un bicchiere di vino bianco in un bar di piazza S. Alessandro a Milano. La signora racconta a un amico la riorganizzazione della sede di una multinazionale straniera: «Abbiamo proposto due differenti soluzioni. Ufficio tre o quattro volte alla settimana, il resto da casa, e fine delle postazioni fisse individuali. Hanno tutti scelto i quattro giorni, ma le foto dei bimbi sulle scrivanie non le hanno ancora levate».

D'altra parte, aveva già spiegato tutto Ettore Scola (La Terrazza, 1980): «Dottore io vado alla mensa, oggi fusilli». Che ci siano timori e remore nel lasciare scoperto il “fortino” è anche comprensibile (soprattutto per chi ha lavorato tutta la vita con il cartellino in mano e il culo termosaldato alla sedia); ma che il capitale si ponga domande relative alla felicità e alla responsabilizzazione individuale del lavoratore, anche quando queste domande nascondano un'ottica che alcuni definirebbero utilitaristica, questo non può mai essere un peccato mortale. È un vantaggio, semmai. Ed è anche giusto per chi interpreta il rapporto di lavoro in modo onesto. Razionalizzare l'orario di lavoro e i modi di produzione perché le due parti siano soddisfatte è una riflessione che non può far paura a nessuna delle due latitudini della relazione. La prima conferenza in assoluto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), la Hours of Work (Industry) Convention del 1919 aveva come oggetto esattamente la discussione sui limiti giornalieri e settimanali delle ore lavorative. D'altra parte, il capitale non ha paura di affrontare l'argomento: che riduzione dell'orario di lavoro e produttività non siano due elementi contrastanti lo dimostrano, oltre alle esternazioni dei maggiori capitalisti al mondo, anche numerosissime ricerche e paper (una per tutte, addirittura del 1987, sempre dell'Ilo: Working Hours: Assessing the Potential for Reduction). Appena se ne convincono anche sindacati e lavoratori, si farà la rivoluzione di gruppo.

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