La prima stagione di House of Cards l'aveva anticipata Kevin Spacey nel 1996: «È quello che tira i fili, che manipola» – descriveva il Keyser Söze per cui gli stavano dando l'Oscar, spoilerava il Frank Underwood del secolo successivo.
La seconda stagione l'aveva preconizzata nel 2000. Altro Oscar, altro ringraziamento, altra descrizione, stavolta del protagonista di American Beauty: «Vediamo i suoi lati peggiori, eppure lo amiamo».
La terza doveva essere l'ultima. Nell'originale inglese, identico negli snodi principali, Francis moriva. Non è vero che il pubblico rifiuti il protagonista malvagio; ma è vero che, da Tony Soprano a Walter White, all'ultima scena tocca farli morire: al pubblico piace la giustizia poetica. Tuttavia, «un'altra stagione» sta ai produttori di successi televisivi come «ancora cinque minuti» agli scolari insonnoliti: di House of Cards ci sarà almeno un quarto anno, e quindi Frank per ora è vivo. E residente in una Casa Bianca che pare Grey's Anatomy.
L'House of Cards di questo secolo è sempre stato il racconto di un matrimonio: era l'unica invenzione rispetto alla serie della Bbc del ‘90, e la sua grande forza. Claire Underwood era più ambiziosa e spietata della Mellie di Scandal, e incarnava quella verità da canzonetta: «E lei ti ama? A suo modo». Claire e Frank si amavano moltissimo, a loro modo, e il fatto che non fosse il modo di nessuno di noi lo rendeva verosimile: quella misura immisurabile che Spencer Tracy chiamava «la mole del matrimonio» non è credibile se somiglia a quella di qualcun altro; se non è un mistero insondabile dall'esterno, non è un matrimonio.
Per due anni, però, gli autori hanno dissimulato. Hanno finto non fosse un nuovo Scene da un matrimonio, ma la saga di due grossisti del potere politico. Del loro legame non si diceva mai niente, eppure si capiva tutto. Specialmente quant'era forte: bastava una sigaretta sul davanzale. Sarà che alla Casa Bianca mancano i davanzali: Claire e Frank passano la terza stagione a esercitarsi in variazioni su: «Dobbiamo parlare di noi».
Sono lussi che ci si possono permettere, senza perdere il pubblico maschile, solo al terzo anno. Se la trasformazione in Grey's Anatomy fosse avvenuta prima, gli spettatori avrebbero capito che no, non era una serie sulla riforma del lavoro, e l'avrebbero abbandonata. Ora che sono fidelizzati, si può usare il trucco da polpettone: ogni caso rispecchia le vite sentimentali dei protagonisti.
C'è l'attivista gay che spiega a Claire il legame matrimoniale («Lei non sa niente del matrimonio», risponde quella, con la sicumera di una che al liceo abbia visto Bergman al cineclub); c'è il biografo che li definisce particelle uguali che formano un atomo inscindibile (causando crisi d'identità: ma davvero siamo uguali? E allora perché il presidente è lui? Dobbiamo parlare di noi); c'è persino il cattivo russo che riduce una trattativa diplomatica a «O lei o me». La quarta stagione, si spera, tornerà a essere capace di far agire i cattivi, allorché capi di Stato, non come amanti smaniose.
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