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Il rag. Filini era un hipster

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Il rag. Filini era un hipster

Mentre si provava a fare la rivoluzione, e l'immaginazione ci provava col potere, in Italia nascevano una poltrona e un impiegato. La poltrona si chiamava Sacco, disegnata per Zanotta da Franco Teodoro, Cesare Paolini e Piero Gatti, e poi destinata ai primari musei globali. Ma nello stesso anno, 1968, questa poltrona diventava anche l'incubo destrutturato di un personaggio che avrebbe poi riassunto la classe lavoratrice del terziario meglio della scuola di Trento. Nasceva Giandomenico Fracchia, impersonato da Paolo Villaggio, scoperto da Maurizio Costanzo e apparso per la prima volta in un programma che si chiamava Quelli della domenica. Lì, il tragico acciambellarsi del ragionier Fracchia sulla «poltrona anatomica con involucro contenente palline di polistirolo espanso ad alta resistenza», secondo scheda tecnica, rappresenterà poi l'incomunicabilità tra arredamento dirigenziale e impiegatizio, un divide eterno e di classe più grave di quello digitale in Italia.

Il primo minimalista, estetizzante, il secondo accumulatorio e aspirante al mobilificio di Cantù. Quando poi Fantozzi – “gemello” e successore di Fracchia, a partire dal 1975, son quarant'anni quest'anno – scalerà una a una le fasce di carriera grazie a promozioni molto repentine e effimere legate all'accompagnamento del duca conte Semenzara al casinò, verranno fuori tutte le massime aspirazioni di “inferior design” lavorativo evidentemente diffuse nell'inconscio italiano.

Dal grado più basso, il dodicesimo, con umile stanzone condiviso, già all'undicesimo l'impiegato aveva diritto a «scrivania personale e poltroncina in scai o finta pelle»; e scai e finta pelle erano poi anche gli interni Fiat di macchine per la classe media, tipo la Fiat 131 sognata dal tassista Renato Pozzetto in Zucchero, miele e peperoncino (1980).

Ma già un impiegato di settima aveva diritto a scrivania in mogano, telefono, pianta di ficus, e in quinta classe arrivavano «lampada di opalina, piano di cristallo, naïf jugoslavo alla parete, due piante di ficus»; fino all'Empireo dell'impiegato di prima: sei piante di ficus, e tappeto per terra. Però, anche nei suoi sogni più proibiti, Fantozzi arrivava solo alle soglie della dirigenza, senza mai sconfinare i confini di classe: perché gli uffici dei megadirettori, naturali e non, non contemplavano naïf jugoslavi, né scai, ma vedevano invece il trionfo dell'assenza, della modernità scarsa, del less is more; non dunque divani di pelle o di finta pelle ma la poltrona informe, i corridoi spogli, al limite i tavoli e le sedie Tulip di Eero Saarinen poi finiti in primarie rappresentazioni dirigenziali, come nell'ufficio di Roger Sterling in Mad Men, la serie sui pubblicitari fichissimi che ricomincia tra poco. Nello stesso ufficio di account e copy, anche divanetti penitenziali di Charles e Ray Eames, grandi disegnatori di status symbol per capufficio globali; le stesse che stavano nella “bolla del Lingotto” torinese e negli uffici romani della Montedison voluti da Raul Gardini in via del Quirinale, in un ex convento dove si dice che avesse abitato per qualche notte anche Karol Wojtyla, in cellette anche piccolissime ma con le loro poltrone e tavole Eames, e i posacenere di Castiglioni per Alessi; quanto di più vicino insomma all'ufficio mistico del megadirettore naturale, senza acquario dei dipendenti ma con arance vere mangiabili in giardino.

L'opalina e lo scai continuavano invece a far sognare i “cari impiegati”, e una middle class poco avvezza ai compassi d'oro; l'opalina che Fantozzi sognava di guadagnare col passaggio in quinta categoria era un upgrade comune ad altre primarie storie italiane, che qualcuno poi avrebbe realizzato veramente. Se nel primo messaggio alla nazione, quello del 1994, Berlusconi aveva registrato dal famoso sottoscala di Macherio con alle spalle una libreria di sobri ripiani di legno, pochi libri e una sculturina di Cascella, nei successivi videomessaggi, compreso l'ultimo di pochi mesi fa, quello surreale della «deriva autoritaria», la libreria diventava bianca, lussureggiante in laminato o mdf, come una cucina Arclinea, e varietà di cornici silverplate delle più svariate fogge. E una grande opalina simil-Flos, incorporata. Il Cavaliere anche in questo condivideva aspirazioni ed estetiche non snob: accumulando, come nei sogni fantozziani, come nelle residenze curate dall'architetto Pes, già sublime accumulatore per Visconti. E quella libreria, bibliografia della nazione, si riempiva sempre di più: con cornici dorate, a sbalzo, e libri sempre più spessi e meglio rilegati e di squincio e anche, a volte, un piccolo ficus, o rampicante, e l'immancabile Enciclopedia Treccani, che fa sempre ufficio serio e casa per bene. Intanto, però, Fantozzi subiva l'horror pleni delle classi alte: al cospetto delle aristocrazie aziendali, la poltrona non solo si decostruiva progressivamente negli anni in cui Armani smontava le giacche: a un certo punto, la poltrona scompariva proprio, e spesso al “si accomodi”, col congiuntivo sempre pericoloso delle industrial relations, non corrispondeva alcuna seduta, costringendo a piegamenti e squat dei più scomodi gli impiegati pre-Jobs act.

Però, la sedia invisibile di Fantozzi segnalava forse anche (metafora) la grande e successiva scomparsa del lavoro, o del posto di lavoro. Se negli anni Settanta l'impiegato di Paolo Villaggio celebrava riti molto aziendali (la coppa Cobram di bici, il rito dell'uscita dall'ufficio alle cinque con conto alla rovescia, la tragica mensa), di lì a poco sarebbe scomparso per molti proprio il lavoro, o alla meglio l'ufficio, e generazioni di freelance e partite Iva terziarie vere e finte avrebbero conosciuto il lavoro domestico. Non più dunque corteggiamenti a colleghe e inviti a colazione da Gigi il Troione, ma pranzi a base di Gioiaverde Giovanni Rana, a casa. E se la Megaditta fantozziana in alcune pellicole era poi la sede della Regione Lazio, a Roma, sulla via Cristoforo Colombo, probabilmente oggi la signorina Silvani col cane Pier Ugo sarebbe stata invitata non al ristorante giapponese, bensì per un pollo o coniglio felici e aspirazionali con birra artigianale al vicino Eataly: con esiti imprevisti.

Ma con la fine dell'ufficio, fine anche di questioni sessiste per l'utilizzo di arie condizionate, legate a problemi di gender e a temperature corporee naturalmente diverse; e invece esistenze solitarie per un popolo di autonomi magari creativi in case non sempre ariose, con la ricerca di un'autodisciplina assai difficile, per non mangiare biscotti tutto il tempo in pigiama e rimandare i lavori alle ore notturne. Infine, la scelta complicata di un luogo di lavoro esterno, per non imbruttirsi: uno studio, una biblioteca. Un bar. Con segnalazioni tra iniziati di locali con cameriere silenziose, alte tolleranze per consumi di caffè e cappuccini moderati, password di wi-fi facili. Alla fine, si provava pure col coworking, per scoprire che per lavorare fianco a fianco a giovani start-upper barbuti dell'Esquilino bisognava pagare cifre anche consistenti, e mettersi in lista d'attesa. E notando che look hipster molto rivalutati in fondo non erano tanto differenti dagli occhiali del ragionier Filini dell'Ufficio Sinistri o dalla barba del massimalista ragionier Folagra, oggi forse in quota Landini, o Civati.

Per i megadirettori, intanto, mentre arrivava la temperie della start-up, e la fabbrica e il luogo di lavoro diventavano grandi parchi giochi da Silicon Valley, con palestre e distributori di bon bon e bar e biliardini, risultava sempre più difficile esser seri, trovandosi in una specie di Småland per adulti. E soprattutto, l'epoca dell'ufficio giocoso corrispondeva naturalmente con quella della Fine della Privacy: e se primarie archistar abbattevano tramezzi e costruivano cattedrali di cristallo, manager anche importantissimi fieri dei loro open space avevano capito da tempo che le uniche riunioni possibili erano nel solo luogo sopravvissuto alla temperie della trasparenza: cioè il cesso.

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