Ponendo nel cuore del suo percorso l’insigne collezione Settala, il nuovo Museo delle Culture di Milano ricapitola e rilancia non solo un importante episodio di storia del collezionismo, ma anche uno spaccato rappresentativo della storia culturale d’Europa. Il Museo Settala fu opera del milanese Manfredo Settala (1600-1680), che per cinquant’anni raccolse senza posa quadri, statue, medaglie, reperti archeologici, oggetti di storia naturale (fossili, animali, vegetali), strumenti musicali, armi, congegni meccanici; infine, oggetti e reperti etnografici. Fu, quella, una Wunderkammer, o «gabinetto delle meraviglie», dove la meraviglia davanti allo strano, al raro, all’esotico era la chiave d’accesso a una preoccupazione classificatoria e scientifica che in quello stesso secolo avrebbe conosciuto un gigantesco balzo in avanti. Oltre ai visitatori illustri (come John Evelyn o Balthasar de Monconys), dettero fama al Musaeum septalianum i ricchi cataloghi a stampa (1664, 1666, 1677); a essi si aggiungono, per ricostruirne la consistenza e l’ordinamento, trecento disegni raccolti in volumi in-quarto (divisi fra l’Ambrosiana e l’Estense di Modena). Questo assemblaggio di oggetti che ci appaiono fra loro estranei, dagli «idoli egiziachi» (usciabti) all’astrolabio, dalla corona di penne indo-americana al planisfero cinese, dagli animali impagliati agli alambicchi, può apparirci un idiosincratico bric-à-brac; ma fu, invece, la forma tipica di un inventario del mondo che, prendendo possesso delle rarità e allineandole sui propri scaffali, voleva proporne una qualche tassonomia (simili a questa furono altre collezioni in tutta Europa, per esempio il Musaeum Wormianum allestito a Copenhagen da Ole Worm). Esse incarnavano l’aspirazione a un nuovo statuto scientifico dell’osservazione, che attraverso l’ambiguo statuto della meraviglia (a metà fra reazione estetico-emotiva e innesco di un percorso conoscitivo) era destinato a capovolgere l’antica condanna (Sant’Agostino) della vana curiositas per le cose mondane, spesso richiamata nel Medio Evo.
Eppure già nel Medio Evo meteoriti, coccodrilli impagliati, uova di struzzo, corna di unicorno, artigli di grifone erano esposti nelle chiese, a un passo dalle statue dei Santi, ma anche da capitelli romani reimpiegati, urne cinerarie riusate come acquasantiere, sarcofagi romani posti sotto gli altari e riadattati a sepoltura dei corpi santi. La chiesa era intesa come spazio totalizzante, luogo di raccolta dello scibile umano, che sotto il segno del rito cristiano convoca tutta la ricchezza del mondo e dei saperi. Fra naturalia e artificialia si percepivano più le affinità che le divergenze, anche perché negli uni e negli altri si cercava un qualche messaggio morale, un exemplum da incastonare nella storia della salvezza. Le Wunderkammern che nel Cinque e Seicento punteggiarono la mappa d’Europa non sono pensabili senza questo antefatto; ma col trasportare le stesse tipologie di oggetti dallo spazio sacro della chiesa a quello profano della casa ne capovolsero il segno, facendone un’attrezzeria di laboratorio per lo studio scientifico della natura e della storia. Non per niente un Worm raccoglieva insieme gusci di tartaruga, iscrizioni runiche e oggetti archeologici; o, a Roma, un Cassiano Dal Pozzo metteva insieme un Museo Cartaceo di antichità romane accuratamente disegnate, ma anche voluminosi atlanti di limoni e altri agrumi, anch’essi disegnati con rigorosa fedeltà. Questa mescolanza di naturalia e artificialia (che includevano anche le opere d’arte) dalle chiese medievali raggiunse, moltiplicata, lo scenario delle rivoluzioni scientifiche fra Sei e Settecento, ma non si fermò lì. Anche molte collezioni ottocentesche conservarono quella peculiare mescolanza, trasponendola anzi nello spazio più istituzionalizzato del museo “positivista”. Per esempio, nei Musei Civici di Modena G. Canestrini arricchì le collezioni di archeologia romana con reperti preistorici da insediamenti di quell’area (come le terramare); ma subito vi si aggiunsero (dal 1875) le collezioni etnografiche, intese a offrire materiale di confronto per le “civiltà primitive” d’Italia, in sintonia con un’antropologia evoluzionistica ispirata da Darwin (di cui Canestrini fu il primo traduttore italiano). A quella stagione appartengono a Milano le collezioni etnografiche che presero posto entro il Museo civico di storia naturale, e che, dopo le distruzioni della guerra, si ampliarono, grazie a importanti donazioni private, con materiali che vanno dall’America precolombiana all’Africa, dal Giappone alla Turchia.
Questo intreccio non solo di oggetti naturali e artificiali, ma anche di archeologia nostrana e culture “altre” si è rivelato nel tempo assai fecondo, provocando un forte spostamento di prospettiva. Nessuno lo ha descritto meglio di Claude Lévi-Strauss. In un saggio del 1956 (Les trois humanismes) egli sostiene che la riscoperta dell’antichità classica nel Rinascimento fu «una prima forma di etnologia», poiché allora «si riconobbe che nessuna civiltà può pensare se stessa, se non dispone di altre società che servano da termine di comparazione». La nuova presenza dell’antico introdusse «la tecnica dello straniamento» come esercizio intellettuale, innescando una rivoluzione culturale di enorme portata. Gli interessi etnologici sorsero come un’estensione del primo umanesimo, indirizzandosi dapprima su poche grandi civiltà orientali, dall’India alla Cina al Giappone. Infine, un “terzo umanesimo” riconobbe che qualsiasi cultura umana è degna di studio e di attenzione, anche quelle che un tempo si dicevano “primitive”, o “senza storia”, le culture dei “popoli allo stato di natura”
Nella sua sintesi folgorante, Lévi-Strauss intende il confronto con gli Antichi dal Rinascimento in qua come una sorta di antropologia latente. Il nuovo umanesimo che ingloba nella sua mappa, senza gerarchie, tutte le culture del mondo, può partire dalle collezioni etnografiche, riscattandole dalle ragioni colonialistiche che spesso le hanno generate, e farne l’ingrediente essenziale di un vivo dialogo fra culture. Esso dovrebbe correggere l’astratta globalizzazione economica della retorica corrente, puntando invece sulla ricchezza multiculturale del mondo che verrà. L’antica curiosità per le culture “altre” del passato deve ormai fondersi con la vocazione ad accogliere i nuovi cittadini (di qualsiasi origine) che è nel Dna delle nostre città. Anche il Museo delle Culture di Milano, con la sua storia lunga e illustre, potrà contribuire a questo scopo.
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