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Inseguire parole

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RANE

Inseguire parole

Tradurre significa passare un mucchio di tempo da soli. Schivo al limite dell'autismo, nascosto dietro le parole altrui, strapazzato o peggio ignorato dai recensori, il traduttore soffre un destino dolorosamente analogo a quello delle spie e cioè di venire notato solo quando sbaglia, ma senza licenza d'uccidere o Bond girls (al Martini si può ovviare). Ma chi è davvero la figura che, se va male, viene confusa con quella dell'interprete e, se va bene, coincide ormai con il personaggio santo e martire di Luciano Bianciardi nella Vita agra? E perché, al di là del dato lavorativo, si comincia a tradurre un testo? E davvero parliamo solo di volgere in un'altra lingua una serie di parole? Queste sono alcune delle domande a cui Massimo Bocchiola cerca di dare qualche risposta in un nuovo saggio, Mai più come ti ho visto, ambiziosamente sottotitolato Gli occhi del traduttore e il tempo (Einaudi Stile Libero). Non è uno dei tanti libercoli intorno alle gioie e alle insidie di un mestiere, ma qualcosa di più.

Se è vero, come scrive Bocchiola in una pagina introduttiva, che tradurre «significa cercare, anzi inseguire senza mai raggiungere, come un Achille (…) che rincorra Achille, le parole degli altri per centinaia, per migliaia di pagine» (e lui – che ha tradotto, tra gli altri, quasi l'opera completa di Paul Auster e Irvine Welsh, i colossi di Thomas Pynchon, qualche Don DeLillo e Martin Amis tanto per gradire, senza dimenticare le tante poesie – ne sa qualcosa), è vero anche che questo inseguimento riguarda prima di tutto se stessi. In queste pagine, la traduzione diventa un più ampio ragionamento intorno al nostro rapporto con il pensiero del mondo e con la nostra collocazione all'interno del tempo. Ecco perché, lungi dall'essere un manuale, Mai più come ti ho visto è una riflessione con l'andamento ondivago, ma tenace, del ricordo.

E la traduzione diventa un filo rosso che annoda Lorca ai ricordi del padre partigiano, i War Poets all'amore per il rugby, Georg Trakl ad Aguirre, furore di Dio, Jannis Ritsos al dialetto pavese. Tradurre non è solo tecnica, letteratura, metrica, tradizione e via dicendo, sostiene Bocchiola. È prima di tutto una scelta intima, un continuo dialogo interiore – si traduce il pensiero, si traducono i sentimenti – con la vita. È una cura volta a riannodare un discorso: con se stessi, con la memoria, con la Storia. E allora tradurre, tradusse il recensore con una lacrimuccia, vuol dire non stare mai soli.

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