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Le cose cambiano (di Raphaël Glucksmann)

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Le cose cambiano (di Raphaël Glucksmann)

Pensavamo di essere nati con la camicia e di poter vivere senza scossoni. Ma la sbornia è finita e ora la nostra generazione deve battersi per fermare i reazionari che minacciano la libertà. Venuti al mondo una sera di novembre del 1989, quando furono celebrate la morte delle ideologie e la scomparsa dei pericoli, eravamo la generazione dei nati con la camicia, quelli che non avrebbero conosciuto la guerra, né calda né fredda, che avrebbero ignorato le grandi battaglie filosofiche, che avrebbero dimenticato le contrapposizioni politico-religiose dei tempi passati. Dopo la caduta del Muro di Berlino fu aperto un McDonald's sulla Piazza Rossa e un professore americano, Francis Fukuyama, divenne una star planetaria proclamando la fine della Storia e incoronandoci «ultimi uomini».

I nostri genitori e i nostri nonni avevano sconfitto il nazismo, il fascismo, il comunismo, le religioni, le ideologie, anche le nazioni, e con esse gli Stati. Infine Dio e, con lui, la morte. Le comunità nazionali, etniche o religiose erano avviate a dissolversi in una cultura planetaria emancipatrice, gli individui si sarebbero sbarazzati delle coercizioni e delle costrizioni, delle Chiese e dei partiti, del tempo e dello spazio, per formare una società globale libera e pacificata. Monadi senza porte né finestre, eravamo destinati a un'esistenza in assenza di gravità, senza scossoni, e nella galleria degli specchi che ci avrebbe fatto da universo ognuno avrebbe contemplato nell'altro la propria perfezione. Alcune fatine buone – Erasmus, Schengen, Maastricht, Steve Jobs, Bill Gates e tanti altri – avevano disegnato per noi un orizzonte di progresso e piaceri, senza fili né frontiere: «Il mercato comune, il diritto di ingerenza, il Club Med, l'euro, internet, Ryanair, l'iPhone, l'iPad, Facebook e Twitter faranno di te un essere compiuto, saprai tutto, sarai tutto». “Loro” ci avevano tirato fuori dalla caverna, “loro” avevano costruito per noi una nuova Thelema, con dipinte all'ingresso in tutti i colori queste parole: «Fai quello che vuoi». Noi ci abbiamo creduto.

Venticinque anni dopo ci siamo risvegliati con un cerchio alla testa, come dopo una sbronza. Il 7 e 9 gennaio 2015 una parte di noi è morta nella redazione di Charlie Hebdo, e poi in mezzo agli scaffali di un minimarket kosher. Il terrorismo non è stato “cieco”. Sparando su Charb e i suoi amici, i jihadisti hanno ucciso i più liberi fra noi: e con loro la nostra spensieratezza. Massacrando il giovane Yoav e i suoi fratelli di sventura, hanno preso di mira la convivenza che caratterizza le nostre società aperte, convivenza di cui gli ebrei sono diventati nel corso dei secoli, del tutto loro malgrado, l'unità di misura. Abbiamo perduto la nostra verginità in rue Nicolas-Appert e a Porte de Vincennes. Il palazzo postmoderno in cui siamo cresciuti è crollato sopra e dentro le nostre teste.
Già da qualche tempo il soffitto perdeva, il pavimento traballava, i muri scricchiolavano. «Fai quello che vuoi» non significava più nulla. Il 2014 chiudeva la favola aperta nel 1989: i carri armati russi calavano sull'Ucraina abbattendo il sistema di sicurezza europeo, YouTube proponeva un'overdose di decapitazioni medievali dall'Iraq e dalla Siria, in certi casi orgogliosamente eseguite da cittadini europei, alcuni ragazzi scandivano «Ebrei assassini!» o «Noi non siamo froci!» per le strade di Parigi, gli elettori del Vecchio Continente rigettavano in massa l'Unione europea, il Fronte Nazionale diventava il primo partito di Francia, Marine Le Pen si vedeva all'Eliseo tra due o sette anni senza che nessuno trovasse più la cosa impensabile… Lungi dall'essere aneddotici o senza rapporto fra loro, tutti questi fulmini a ciel sereno avevano una loro logica, presi nel complesso.

Dal 1945 a oggi, mai la democrazia liberale è stata tanto contestata nel cuore stesso di un Occidente che avrebbe dovuto assicurarne il trionfo planetario. Un ex agente del Kgb, Vladimir Putin, ha chiuso il McDonald's della Piazza Rossa e la Storia non è finita. Al contrario, è cominciato uno scontro, ibrido, globale ed equivoco, che attraversa i continenti, prende forme diverse e riveste gli abiti più vari. Gli avversari della società aperta non si assomigliano tra loro e molto spesso si odiano. Non c'è niente in comune, apparentemente, fra il predicatore salafita che arma ideologicamente i terroristi di Vincennes o di Tolosa e Marine Le Pen che, più rapidamente degli altri, trova le parole dopo l'orrore per condannare il «fondamentalismo islamista». Non c'è il minimo rapporto, a prima vista, tra Vladimir Putin che alza la cornetta – anche in questo caso fra i primi – per garantire agli americani il suo sostegno dopo l'11 settembre e al-Baghdadi che esalta il califfato planetario. Sono l'opposto in tutto. In tutto, tranne che nella comune avversione per il mondo che ci ha visti nascere e che credevamo universale. In tutto, tranne che nel rigetto dei nostri principi cosmopoliti e democratici, dei nostri modi di vivere, della nostra libertà di movimento e di costumi. In tutto, tranne che in quello che ai nostri occhi costituisce l'essenziale.

Da Mosul a Mosca, passando per Parigi, assistiamo al ritorno in grande stile di soggetti reazionari, religiosi o laici, che credevamo morti e sepolti da molto tempo. I fanatismi, i nazionalismi, le ideologie dell'isolazionismo sono entrati in guerre (il plurale è importante in questo caso, perché purtroppo dobbiamo imparare a contare oltre il due) contro la “Babilonia globale”, un mondo dove si ride di re e profeti, di dei e diavoli, dove non bisogna presentare l'albero genealogico per salutare qualcuno, dove si scopa con chi si vuole, come si vuole, quando si vuole, un mondo senz'altra identità che quella che ci scegliamo, per un certo periodo, prima di cambiarla. Il mondo di Charlie. In queste offensive concomitanti e non concertate, certi utilizzano le armi, altri maneggiano i concetti e producono un discorso pubblico. I predicatori islamisti parlano e i Kouachi passano all'azione. Niente di simile con l'estrema destra? Significa dimenticare i 77 morti di Oslo e di Utøya del 22 luglio 2011. Anders Breivik che finiva uno a uno degli adolescenti norvegesi gridandogli di andarsi a mescolare con i loro amici arabi nell'aldilà non è meno terrorista dei jihadisti del gennaio 2015. Come loro, agisce in nome di un'ideologia. Come loro, prende di mira la nostra società multiculturale di cui la socialdemocrazia scandinava offre teoricamente un modello riuscito. Lo chiarisce in un documento di 1.500 pagine pubblicato il giorno dell'attentato, dove si mescolano i riferimenti classici dell'estrema destra contemporanea, dalla fascinazione per Putin all'odio per il meticciato.

Qualsiasi lettura binaria o lineare – l'Occidente contro l'islamismo – delle guerre a venire ci precipiterebbe nell'abisso. Se la teoria della fine della Storia è ridotta in cenere, anche quella dello scontro di civiltà non funziona più. I terroristi islamisti non hanno attaccato Notre-Dame, ma Charlie Hebdo. Non un altro sacro, un'altra identità fissa, ma la negazione del sacro, il rigetto delle identità univoche. Lo stesso bersaglio di Breivik. I conflitti contemporanei attraversano società, culture, “civiltà” non più separate da frontiere a tenuta stagna. Imperversano in seno all'Islam, nel cuore dell'Occidente, in Africa, in Asia. A volte sono militari, sempre sono politiche.
Quando giovani cittadini francesi massacrano i disegnatori di un giornale satirico o, tre anni prima, i bambini di una scuola ebraica, la prima risposta da dare è ovviamente di polizia. Ma gli attentati del gennaio 2015 e del marzo 2012 non sono opera di una rete di malviventi guidati da fame di guadagno. Sono motivati da un'ideologia che bisogna riuscire a chiamare per nome per poterla combattere: l'islamismo. Avvengono in una società disorientata, che dubita delle sue istituzioni come dei suoi princìpi, tentata già da prima dal ripiegamento su se stessa, sedotta dalle sirene dell'estrema destra. Un circolo vizioso, in cui fantasmi identitari opposti si alimentano a vicenda, minaccia la République.

Il sussulto civico, etico, intellettuale è fondamentale. Le imponenti manifestazioni spontanee seguite al massacro di Charlie Hebdo e dell'Hyper Cacher sono soltanto un inizio, un'insurrezione delle coscienze che ora dobbiamo tradurre concettualmente, socialmente, politicamente. Il silenzio dignitoso delle nostre marce deve produrre le sue parole, la sua narrazione, le sue gesta. Per non lasciare che il ping pong fra gli islamisti e il Fronte Nazionale sotterri la Francia di Voltaire, Montaigne, Rabelais, la Francia della Rivoluzione, di Charlie, di Brassens, una nazione che può essere cristiana, ebrea, musulmana, atea o qualunque altra cosa proprio perché non è nessuna di queste cose in modo univoco, perché è qualcosa di più o di meno: una Repubblica laica, aperta, libera, una costruzione collettiva e non un accumulo di radici o una sovrapposizione di essenze.
La doppia sfida che ci viene lanciata esige una risposta di fondo. Di fronte alle tentazioni islamiste e xenofobe, dobbiamo trasformare i nostri sentimenti vagamente umanisti, il nostro indolente attaccamento alla libertà, le nostre pigre intuizioni mondialiste in una visione, un progetto, un'ideologia. La sveglia ha suonato. La nostra generazione assopita dalle favole di Wall Street o di Stanford sulla globalizzazione felice è vivamente invitata a scendere nell'arena.

Non idealizziamo il sonno a cui siamo stati così brutalmente strappati. “Loro” ci avevano detto che eravamo liberi e noi avevamo risposto a colpi di torrette di guardia e di filo spinato, di muri e di Valium. Eravamo “senza frontiere” e il nostro circolo di eletti era sorvegliato ventiquattr'ore su ventiquattro da buttafuori armati fino ai denti, che respingevano i miserabili pronti a morire nel Mediterraneo per riuscire a entrare. Avevamo tutto per essere felici e battevamo i record di consumo di antidepressivi. Avevamo trasformato l'emancipazione della specie in manna per le imprese farmaceutiche ed edilizie.
Tutto era a portata di mano e a nulla accordavamo un prezzo. Era vietato vietare ed eravamo buoni come angeli. «Fai quello che vuoi» aveva generato il principio di precauzione. Evaporati i grandi pericoli, il minimo rischio diventò il nemico. Non avendo più nulla da temere, avevamo paura di tutto. Avevamo cancellato le asperità dalle nostre vite, al punto di dubitare della nostra esistenza.
Avevamo diritto a Charlie Hebdo, ma non lo compravamo più. Per noi era lì da sempre e per sempre: e allora perché fare la fatica di andare fino a un'edicola? Lo scorso dicembre, in un camerino di Arte, la rete televisiva franco-tedesca, Charb mi aveva confidato: «Mi immaginavo che sarebbe successo per un attentato, ma il rischio è che a farci fuori sia una mediocre questione di bilancio». Le pallottole dei fanatici religiosi lo hanno smentito, ma Charlie Hebdo, la punta più acuminata della nostra libertà comune, era minacciato innanzitutto dalla nostra indolenza. Eravamo apaticamente liberi. Un enunciato incoerente, una contraddizione logica.
L'avversità – o la presa di coscienza che l'avversità esiste, irriducibile – può tirarci fuori dalla nostra abulia, rendere «autentiche»queste esistenze di cui dubitavamo, come l'incontro della morte secondo Heidegger. Non c'è più scelta. Se vogliamo preservare quello che credevamo acquisito, far vivere quello che credevamo innato, è tempo di scambiare i nostri abiti postmoderni con tute da operaio, è tempo di smetterla di credere nel laissez-faire, laissez-passer.

Siamo armati per tutto questo? È possibile, per persone cresciute in Europa occidentale negli anni 80, 90 o 2000 trovare in sé le risorse intellettuali, psichiche, fisiche necessarie alla lotta? «L'inverno arriva», dice la serie tv Il trono di spade: siamo attrezzati per il grande freddo che si annuncia e il suo corteo di zombie uno più fascio dell'altro?
Siamo abbigliati per un'eterna primavera e dobbiamo cominciare col denudarci. A Sciences Po o in facoltà, nei nostri giornali del mattino e nei nostri livres de chevet, abbiamo scoperto che bisognava essere “pragmatici”. Leggendo Max Weber con l'accetta, i nostri professori, i nostri rappresentanti eletti, i nostri editorialisti ci hanno inculcato «l'etica della responsabilità» e ci hanno messi in guardia contro il suo contrario, “l'etica della convinzione”, altro nome dell'“idealismo” o del fanatismo. Ci hanno detto di far posto alla “complessità del reale”, ci hanno vaccinati contro le tentazioni “dogmatiche” e le passioni “manicheistiche” dei cuori barbari e delle anime primitive. Sappiamo decostruire, analizzare, interpretare, conservare la distanza e l'equilibrio: in una parola, sofisticare.
Il risultato è eloquente: siamo talmente evoluti da essere diventati incapaci dei pensieri o desideri più semplici; lasciamo così tanto spazio alla complessità del reale che ci è impossibile formulare la minima visione o accettare la minima scelta. Siamo talmente intelligenti che non riusciamo più a decidere in modo chiaro. I nostri concetti hanno la punta smussata, eppure abbiamo ancora paura di tagliarci utilizzandoli. Viviamo in un mondo di parole, di interpretazioni, di interpretazioni delle interpretazioni, eppure, quando la crisi arriva, le parole ci mancano, non riusciamo a interpretare più niente. Per comprendere la tempesta che si scatena, affrontarla e sopravvivere, dobbiamo anzitutto disimparare quello che abbiamo imparato, tornare al punto di partenza, prendere un'altra strada: quella delle convinzioni.

Con la lingua del secolo dobbiamo riformulare i nostri princìpi, riaffermare un progetto comune, ridare corpo e vita alle idee di libertà, di laicità, di tolleranza, che non possono sussistere senza consapevolezza e senza passaggio all'azione. Se non riprenderemo il filo della grande narrazione dell'Illuminismo con le parole del nostro tempo, lasceremo morire il mondo di Voltaire e di Charlie, il nostro mondo. Se non desteremo più il desiderio di agire e pensare da democratici, ci risveglieremo presto in un Paese, in una civiltà molto diversi. I quattro milioni di cittadini scesi in piazza l'11 gennaio 2015 sono un inizio. La lotta è appena cominciata.
Ho lasciato la Francia a vent'anni. Volevo raccontare, scrivere, filmare questo mondo dove si continuava a vivere, credere e morire come se La fine della storia e l'ultimo uomo non fosse mai stato pubblicato. In un primo momento ho depositato i miei bagagli al Sud. Inizialmente ad Algeri, dove cominciai come stagista al giornale Soir d'Algérie. Le fatwa pesavano sui giornalisti e i disegnatori. Decine di loro furono ammazzati dagli stessi assassini dei nostri amici di Charlie Hebdo. Vidi in quell'occasione che la libertà aveva un costo. In seguito ho soggiornato in Ruanda, per indagare sul genocidio dei tutsi e le complicità della Francia. Scoprii che la mia apatia citoyenne, l'indifferenza del mio popolo, le falle della mia République potevano tradursi in fosse comuni, che c'era qualcosa al di là delle parole, che le azioni, o ancora meglio le non-azioni, avevano conseguenze. Poi sono partito verso l'Est, ai confini, all'epoca euro-entusiasti, del nostro Vecchio Continente annoiato.

Ho pubblicato articoli, realizzato documentari. Fino al 13 agosto 2008. I carri armati di Putin dilagavano in Georgia. A uno sbarramento militare russo a sud della città di Gori, ho avuto la “fortuna” di incrociare il generale Borisov, capo delle truppe d'invasione. In mezzo a mercenari che saccheggiavano le case dei dintorni, inveiva contro i pochi giornalisti presenti: «Massa di rottinculo! Tornate a casa vostra a sbattervi i vostri negri! Qui non è l'Europa, è la Russia!». In quel momento scattò qualcosa in me: decisi di mettere via la telecamera e agire, invece di testimoniare. Alle 3 del mattino entrai nell'ufficio del presidente georgiano Mikheil Saakashvili: «Voglio restare finché quei maniaci saranno qua e voglio dare una mano. Anche pulendo i cessi, se necessario». Lui sorrise: «Allora rischi di rimanere qui per un sacco di tempo. E troveremo qualcosa di meglio da fare insieme». Per cinque anni mi sono occupato dell'integrazione europea della Georgia. Prima di tornare in Francia “definitivamente”, nel novembre del 2013. In realtà non ci sono rimasto neanche dieci giorni, perché poi cominciò la rivoluzione ucraina e andai ad aiutare i miei amici a Maidan.

I diplomatici, gli esperti, i mezzi di informazione hanno parlato per molto tempo di “conflitti periferici” per rassicurare gli abitanti del “centro”, per tenere a distanza le immagini violente che sfilano ogni sera sui loro schermi televisivi. Io ho attraversato quella periferia che esiste solo nelle nostre teste e non ci ho trovato un mondo in ritardo, al contrario, ho incontrato il nostro futuro. Questo periplo non ha nulla del safari in terre primitive. Algeri, Kiev e Tbilisi erano in anticipo su Parigi. E queste pagine non parlano nemmeno di politica estera, perché in politica l'estero non esiste più. Le nostre frontiere mentali e fisiche sono un colabrodo. I movimenti identitari europei, Fronte Nazionale in testa, si abbeverano, si approvvigionano a Mosca mentre i “nostri” terroristi vedono il mondo, la Francia e noi stessi attraverso lo specchio deformante delle televisioni satellitari del Golfo o dei siti jihadisti globali, poi fanno addestramento in Siria o nello Yemen. La periferia e il centro si intrecciano fra loro e nessuno potrà mai più districarli.

Nelle banlieues sud ed est dell'Europa ho incontrato la libertà e la servitù, l'emancipazione e la sottomissione, la convinzione romantica nel concetto di progresso e il suo contrario altrettanto romantico, la febbre identitaria. Ho visto formarsi l'onda reazionaria che oggi sommerge il nostro continente. Ma ho intravisto anche l'antidoto a questa onda: dalle coscienze algerine che combattono per le libertà ormai sotto attacco in casa nostra alle insurrezioni della gioventù araba o ucraina; guardiamo, ascoltiamo coloro che hanno già vissuto e pensato quello che noi adesso viviamo senza comprenderlo veramente.
Viviamo in un mondo senza posto preassegnato o postdefinito per gli individui che lo compongono e lo attraversano, l'«instabilità perenne» di cui parlava Montaigne. In questo mondo senza autorità stabile né regola fissa, solo quelli che si impegnano hanno voce in capitolo. Che siano nemici o sostenitori della società aperta, della democrazia, del cosmopolitismo. Mentre rivoluzioni e controrivoluzioni si moltiplicano, violente o pacifiche, ostentate o insidiose, è impossibile nascondersi dietro dei muri o dei titoli, ripararsi sotto l'ombrello di un'introvabile neutralità: non ci sono più chierici su questa terra, e tantomeno arbitri. Bisogna credere in qualcosa. O tacere.
Dal «Dégage» tunisino al «Je suis Charlie» francese, da piazza Tahrir a Maidan, i milioni di individui che scendono in strada senza partito né leader, senza dogma né programma, inventano un nuovo tipo di civismo. I dirigenti, consolidati o contestatari, possono innestarsi sulle mobilitazioni spontanee delle coscienze in azione, ma non le controllano e non riusciranno mai a strumentalizzarle. Queste insurrezioni civiche per il momento non hanno nessuno sbocco politico o intellettuale coerente. Ma portano dentro di sé, in germe, le risposte che cerchiamo. Senza trovarle, per il momento.
Ora, il tempo incalza. Da Vladimir Putin al Fronte Nazionale, passando per gli apprendisti jihadisti che inquinano i nostri quartieri, i fautori di un incredibile ritorno all'indietro attaccano e riempiono il vuoto lasciato dai nostri silenzi troppo protratti e dalle nostre comuni abdicazioni. Il doposbornia è terribile. Pensavamo di scivolare surfando sulle dolci e amichevoli onde della globalizzazione e ci ritroviamo a dover nuotare controcorrente, armati solo delle nostre convinzioni, guidati solo dal nostro giudizio. Ne siamo in grado?

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