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Il rapporto fra uomini e animali è segnato da una disparità che emerge subito, dall'uso verbale: un gatto si possiede, un bovino si mangia, un verme si schiaccia; e dare a qualcuno del cane (o, più in generale, della bestia) non è un modo fantasioso per stabilire un'equità darwiniana, ma semplicemente un insulto. Il volume collettivo A come animale. Voci per un bestiario di sentimenti, a cura di Leonardo Caffo e Felice Cimatti, si propone dunque di «riscrivere l'alfabeto» del modo in cui guardiamo ai nostri compagni di vita sul pianeta, sovvertendo proprio quest'ottica di dominio scontato, per ridare a maiali, formiche e serpenti la libera soggettività che loro spetta.

Si va dalle ricerche di Vincenzo Santarcangelo sulla musica prodotta e fruita dagli animali, al topos della bestia che respinge e attrae (e su cui scaricare il peggio di ciò che siamo) analizzato da Eleonora Adorni, fino all'interesse dell'architetto Frederick Kiesler verso le architetture animali segnalato da Valentina Sonzogni. Un tema ricorrente è il tentativo di spezzare il dominio linguistico dell'uomo sull'animale, l'arma che dovrebbe distinguere la nostra specie dalle altre. Il sortilegio dell'animot (da animal e mot, “animale” e “parola” che lo determina, secondo la fortunata etichetta di Derrida) è infatti potentissimo. Come scrive Marco Mancassola, l'imposizione del nome alle bestie da parte di Adamo è un battesimo a senso unico: «Essere nominati significa già inevitabilmente essere dominati», e dunque irretiti nella storia umana. Da qui il paradosso di sfruttare l'immagine di un maiale o di una gallina in un cartone animato e nel contempo allevarne in batteria e macellarne milioni nel modo più brutale possibile: un altro episodio della «tendenza umana a prevaricare il diritto dell'Altro a essere semplicemente altro».

Allo stesso modo, Federica Giardini sottolinea che l'interesse nei confronti degli animali è legato molto spesso al profitto e alla sua massimizzazione, per cui trovare una forma di autentica empatia nei loro confronti è anche un gesto di «grazioso abbassamento». Un modo per ricordarci che la distanza che ci separa non è ampia come crediamo (o ci piacerebbe credere).

Sulle prime mi ha un po' stupito l'assenza del Dolore alla voce “D”, ma in fondo tutto il libro ne è sottilmente pervaso: l'enorme quantità di dolore animale, muto, senza diritti, dato per inutile più o meno a livello globale. Una sofferenza che si lega a doppio filo con la violenza umana: fisica (nei mattatoi) e simbolica (nella riduzione dell'animale a semplice appendice o corpo intrappolato in uno zoo). Ora, a prima vista tali riflessioni sembrano figlie di una mentalità contemporanea, finalmente disposta ad allargare il discorso etico ad altre forme di vita. In realtà non è così. Le oltre cinquecento pagine di L'anima degli animali. Aristotele, frammenti stoici, Plutarco, Porfirio (a cura di Pietro Li Causi e Roberto Pomelli) testimoniano come la riflessione sui diritti zoologici fosse molto ricca, benché in forma abbastanza carsica, anche nel pensiero antico. Il percorso eletto dai curatori è una sorta di tesi-antitesi-sintesi che comincia con le osservazioni naturalistiche dell'Historia animalium di Aristotele, dove si scopre ad esempio che «la pantera, quando ha ingerito la sostanza detta “pardalianche” (un veleno che uccide anche i leoni), cerca gli escrementi umani, che le giovano»; prosegue con i frammenti stoici che insistono sulle differenze radicali fra uomo e bestie, e termina con gli argomenti a favore della compassione verso gli animali offerti da Plutarco e Porfirio. E sono proprio questi gli scritti più attuali dell'antologia: per il modo con cui inaugurano un obbligo morale autentico verso l'universo zoologico, e il progetto di un vegetarianismo coerente.

Consiglio in particolare un gioiellino di Plutarco: il Bruta animalia ratione uti, ovvero «gli esseri irrazionali usano la ragione», un titolo un programma. Si tratta di un breve scambio fra Gryllos, un uomo trasformato in maiale da Circe, e Ulisse in persona. Gryllos illustra le virtù degli animali con grande precisione, dando del “disgraziato” al suo più celebre interlocutore e ricordandogli che «l'intelligenza delle bestie non lascia spazio alcuno a nessuna delle arti inutili e insensate; al contrario, quelle necessarie non le importiamo dall'esterno con l'aiuto degli altri, né le apprendiamo da insegnanti a pagamento, perché è la nostra stessa intelligenza che le genera autonomamente, come se fossero innate e congenite, senza che ci sia bisogno di unire tutte le conoscenze con l'esercizio e incollarle, quasi, a fatica fra loro». Un suino che umilia Ulisse, il più intelligente fra gli uomini: meglio di così...

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