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«Io non voglio fallire». Storie di straordinaria resistenza di piccoli imprenditori del Nord Est

Essere un piccolo anello di una grande catena può essere molto rischioso. Lo ha scoperto sulla sua pelle Serenella Antoniazzi, una signora di 46 anni di Concordia Sagittaria (Venezia), che ha deciso di raccontare le sue sconfitte di imprenditrice nel libro, naif ma vero, “Io non voglio fallire” appena pubblicato per la casa editrice veneta Nuovadimensione. In 170 pagine sono condensati tre anni di crisi della A.G.A snc,-dalle inziali del nome dei due fondatori Arnaldo e Giuseppe Antoniazzi- azienda familiare con otto dipendenti, che è stata sull'orlo del fallimento per mancata riscossione di crediti.

La storia è rappresentativa di una realtà economica sostanziale del nostro Paese: quella costruita dai titolari di 3.718.236 piccole e medie imprese, il 95% dei quali guidano un'azienda con meno di 10 addetti (dati Eurostat). Micro imprenditori, molti dei quali improvvisati, che prima del 2008 lavoravano nel comparto manifatturiero italiano, secondo in Europa solo dopo la Germania. Da allora hanno cessato di operare circa 50 000 imprese, pari all'11% del totale. L' A.G.A a fatica ce l'ha fatta, pagando a caro prezzo troppe ingenuità e una cauta gestione del rischio d'impresa. Ma le anomalie a cui porre rimedio sono anche altre come afferma nella postfazione Roberto Fontana, ex giudice del Tribunale fallimentare di Monza e Milano:”La sottocapitalizzazione delle società, la tendenza a truccare i bilanci, omettendo la svalutazione dei crediti deteriorati o il ricorso a compensare le alte passività con sistema di garanzie esterne all'impresa (fideussione e ipoteche rilasciate dai soci)”. A questo si aggiunge, secondo Fontana, il danno, verso terzi e lo stato, di quelle società programmate per fallire: senza pagare fisco, enti previdenziali e fornitori. Come fare dunque per sopravvivere operando onestamente? Per Fontana, attualmente sostituto procuratore a Piacenza, se da un lato andrebbero aumentati i sistemi di vigilanza e allerta, come avviene in Germania e in Francia, dall'altro sarebbe opportuno introdurre degli incentivi, come l'eliminazione di sanzioni fiscali o di esclusione della responsabilità per le imprese che rivelano il loro stato d'insolvenza e propongono subito il concordato preventivo. Procedure queste che si stanno discutendo finalmente nella commissione istituita il mese scorso per la riforma del diritto fallimentare.

“Io non voglio fallire” non è dunque un manuale di management, ma descrive bene la parabola di tante aziende che, nonostante tutto, vogliono fare impresa nel nostro Paese.

I sacrifici
Nel primo capitolo del libro la signora Antoniazzi racconta la nascita dell' A.G.A snc fondata nel 1972, costruita a “mani nude” dal padre e lo zio. L'ostinazione, il duro lavoro, le domeniche e le sere “passate nel capannone con la mamma, la zia, mio fratello e le cugine, perché il papà e lo zio lavoravano fino a tardi e le mogli, con la calce viva e stracci, pulivano dal ferro i residui di pasta abrasiva” non sono però bastati a dare solide basi per far crescere l'azienda di famiglia. L'errore più comune fatto da tanti imprenditori fai da te è stata come in questo caso l'assenza di un piano di sviluppo a lungo termine: “Fin dall'inizio fu una S.n.c (società in nome collettivo) e da allora non abbiamo mai pensato di trasformarla in una società di capitali”.

Piedi (troppo) per terra
La protagonista racconta che fin dall'avviamento, quando in A.G.A si pulivano i metalli dei componenti dell'arredo ospedaliero, i guadagni venivano reinvestiti in macchinari e personale. “Vivemmo per molto tempo del nostro lavoro, risparmiando senza chiedere aiuto a nessuno, grazie alla perseveranza di mio padre e all'amministrazione oculata di mia madre”. Molti piccoli imprenditori italiani che hanno considerato il prestito come una pecca morale e vi sono ricorsi solo con l'acqua alla gola si sono ritrovati in situazioni di deficit analoghi a quelle dell'artigiana di Concordia.

Una via segnata
Serenella Antoniazzi entra in azienda rispettivamente a sedici anni con un attestato di segretaria e il fratello a tredici con la licenza media senza mai concedersi l'opportunità di aggiornarsi professionalmente. Entrambi però hanno subito l'imposizione familiare di entrare subito in fabbrica a lavorare: ”Nemmeno a lui qualcuno aveva chiesto che progetti e sogni avesse per il futuro. Essere lì era un dovere nei confronti dei nostri genitori, non un sacrificio. Per chi ha un'azienda di famiglia la strada è spesso segnata”. Il mancato confronto con altre realtà professionali e una insufficiente riqualificazione sono però errori gravi per chi vuole fare impresa oggi. Lo racconta bene l'autrice quando, suo malgrado, deve affrontare e gestire problemi di natura giuridica: “Conoscevo lo stretto necessario delle norme che regolano il lavoro…oppure sono confusa schiacciata in un meccanismi più grande di me”.

Quando i capannoni spuntavano come funghi e valeva la parola
Nel settore del mobile, racconta l'imprenditrice, “le aziende erano perlopiù a gestione familiare, come la nostra, e si lavorava con il sistema del doppio incasso, non si chiedevano anticipi alle banche perché si veniva pagati alla scadenza della fatture. Era un'epoca (gli anni Novanta) nella quale la parola di un uomo aveva ancora un peso normale”. Quelle regole semplici ma etiche hanno dimostrato tutta la loro fragilità un ventennio dopo, trasformando la giungla di capannoni in un cimitero di ecomostri. Basta un ritardo dei pagamenti di un'azienda per falciare a cascata migliaia di piccoli imprenditori che sulla fiducia, sulla parola d'onore, hanno costruito l'attività.

Il pericolo di restare piccoli
L'A.G.A dalla sua fondazione ha cambiato business una sola volta: prima si lucidavano i metalli e poi il legno. Ma in trent'anni il mercato è cambiato molto di più. L'imprenditrice anche quando gli affari andavano bene non è mai provato altre strade che avrebbero potuto, nei giorni più bui, sostenere in modo più efficace il conto economico dell'azienda, senza ricorrere a ipoteche e prestiti: “Restavamo piccoli, privi di mezzi più innovativi, ma il nostro sapere ci rendeva insuperabili”. Il conto da pagare è stato particolarmente salato anche a causa di un'altra debolezza strutturale: la mono committenza. Nel caso della signora Antoniazzi è bastato che il principale appaltatore cominciasse a ritardare i pagamenti per mettere da subito in difficoltà l'operatività e i conti della piccola impresa.

La crisi non durerà in eterno
“A fine gennaio 2011 l'annuncio che ANTEA avrebbe fatto slittare le scadenze dei pagamenti non mi allarmò: fino a quel momento erano stati puntuali ed è considerato normale postdatare le scadenze del 10 gennaio al 10 febbraio. Mi rassicurarono”. Serenella non riesce a interpretare i segnali della crisi e scopre di essersi sbagliata troppo tardi quando il principale committente cambia proprietà e i nuovi soci modificano unilateralmente i termini del contratto: “Mi dicevo che non sarebbe durata in eterno, alle nostre orecchie non erano arrivati pettegolezzi…Poi Masiero mi propose un aut aut: o il pagamento della metà del debito maturato con la precedente gestione o una rateizzazione in 12 mesi con uno sconto del 4% e la promessa di raddoppiare le commesse. Ma se avessi scelto la prima azione avrebbe cambiato fornitore”. L'imprenditrice è in trappola: ha ignorato le sofferenze del settore, ha fatto dipendere le sorti dell'azienda da un unico contratto e non ha saputo trovare, ne proporre una alternativa alla contrattazione: “Ne parlai con mio padre e mio fratello, spiegai la situazione alla banca e decidemmo per la seconda opzione, attratti dalla prospettiva di aumentare il fatturato, mentre tutti lo ridimensionavano”. Sarà l'inizio del calvario.

L'unione fa la forza
Quando il buco da sanare è ingestibile e le ipoteche non bastano più Serenella trova una via d'uscita. Abbandonata la paura e la vergogna -”Mi vergogno è dura chiedere aiuto”- è riuscita ad allearsi con altri imprenditori proprietari di ditte sane come la sua che “a causa di mancati pagamenti accumulano debiti con le banche, con i dipendenti, con lo stato” e a proporre una class action contro quelle aziende “che falliscono, e rinascono in pochi giorni, dopo aver ingannato e alleggerito tutti”. Il primo round in tribunale sarà a giugno e potrebbe fare scuola.

Quello che si può imparare dalle vicende narrate dell'imprenditrice di Concordia e che non è mai troppo tardi per cambiare direzione agli eventi come lei stessa racconta, quando invita i vicini di capannone a schierarsi e fare gioco di squadra: “Signori forse non siamo responsabili della situazione in cui ci troviamo ora, ma lo diventeremo se non faremo nulla per cambiarla”. Ora la signora Antoniazzi, nonostante i numerosi appelli spesso inascoltati verso istituzioni locali e nazionali, associazioni di categoria, media e sindacati, è di nuovo al comando e continua la sua strada in salita affinché, dice, “quelli onesti come me che nel mitico Nord Est da contadini sono diventati imprenditori, passando gran parte della vita in azienda, possano continuare a creare ricchezza per l'Italia”.

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