Cultura

Lego, il linguaggio dei corpi nell'era dei social

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Danza

Lego, il linguaggio dei corpi nell'era dei social

Accanto ai danzatori Eugenio Scigliano, Walter Matteini, Paolo Mangiola, solo per fare alcuni nomi, cresciuti e transitati tra le fila dell'Aterballetto e maturati poi, con diverse esperienze e risultati, come coreografi, si aggiunge ora un altro valido autore, Giuseppe Spota, anch'egli talentuoso interprete della compagnia di Reggio Emilia, volato successivamente in Germania, a Stoccarda, come danzatore nella compagnia di Eric Gauthier, quindi a Wiesbaden per quella di Stephan Thoss, la Hessisches Staatstheater Wiesbaden.

Qui ha sviluppato le idee coreografiche che intanto crescevano nella sua mente, incoraggiate, sostenute e portate a compimento in creazioni che ne hanno confermato il promettente talento. A riconoscerne le qualità e offrire al giovane coreografo pugliese un ulteriore, importante banco di prova, è stata la commissione arrivata da Cristina Bozzolini per una nuova creazione da aggiungere al repertorio del nuovo versatile corso di Aterballetto ormai avviato verso un futuro dall'appeal internazionale, aperto ad autori e stili diversi. Sulla scia del binomio lirismo ed energia, che si addice alla compagnia, Spota innesta la sua poetica e il suo linguaggio sui corpi dei generosi danzatori quali conduttori di calore e di colore, facendone scaturire racconti e visioni. Non in senso didascalico, né prettamente figurativo, bensì tematico, traducibile in una danza astratta di grande inventiva gestuale, che predilige le masse; e con un lessico ricchissimo – fatto di guizzi ondivaghi di braccia, mani, gambe, di teste roteanti, di pugni come mattoni l'uno sopra l'altro - che è un tripudio di plasticità e dinamismo. “Lego” è il titolo della coreografia. Inteso come legame. Come costruzione. Come incastri di tasselli.

Di anime, di corpi, d'incontri, di unioni, a voler significare l'importanza di dover tornare alla dimensione reale dei rapporti e dei legami umani in un mondo sempre più spersonalizzato a causa dell'avvento delle nuove tecnologie che hanno mutato e disumanizzato le nostre relazioni. In un palcoscenico vuoto lo sfondo è animato da raffinate e stilizzate proiezioni digitali di città, di strade, di ponti, di alberi. Una rappresentazione grafica in continua trasformazione e definizione di pixel con il cubo quale elemento geometrico dominante. Rosso e bianco; che cade dall'alto e si moltiplica; col quale, in apertura di sipario, dialoga una danzatrice muovendosi dentro di esso, per poi frantumarsi spinto in alto lasciando pulviscoli nell'aria. In un brulichio di vita quotidiana di flussi e riflussi Spota mette in gioco i danzatori prima a piccoli gruppi, poi aumentandone la presenza con tutta la numerosa compagnia, quasi sempre in scena, staccandone duetti e strepitosi assoli in quadrati di luce, e dove si fanno largo eccellenti terzetti e quartetti tutti giocati sull'equilibrio del corpo femminile che si protende in alto. Il montaggio è serrato, veloce, continuo, in costante gemmazione.

È un'onda di energia che cattura gli interpreti in un poema di rapporti tra spazio, luci, corpi, con una forza di segno ispirato che trova nei costumi vermigli degli interpreti quel legame che non pone resistenze alla comunione dei corpi cui essi tendono con momenti in cui, trattenendo le energie in una serie di pause quasi cinematografiche, si fermano e impediscono l'incontro cambiando direzione. Spota, con una danza che “racconta” di uomini e donne, d'incontri che si fanno e si disfanno, simili a fili di sintonie, organizza fluidamente l'ondata dei gruppi per geometrie e curve e cerchi ammorbidendo il pur rigoroso impianto in un bagno di frammenti sonori calzanti come la musica chiaroscurale dell'italiano Ezio Bosso, ma anche di A Filetta, di Jóhann Jóhannsson, di Olafur Arnalds/Nils Frahm. Il “racconto” di Spota va ben oltre il movimento coinvolgente: è energia che nasce di piedi, a contatto con la terra, sale e si trasforma in intelligenza creativa. In questa ottica anche il movimento rotatorio di un braccio, uno scivolare e riandare, un modo di essere nello spazio, ci parla di noi, di una semplicità così difficile da raggiungere, ma che è possibile ritrovare.

“Lego”, coreografia, allestimento e costumi di Giuseppe Spota, musiche E. Bosso, A Filetta, J. Jóhannsson, O. Arnalds/N. Frahm, luci Carlo Cerri, video e sound design OOOPStudio. Prima rappresentazione assoluta a Modena, Teatro Comunale “L. Pavarotti”.

http://www.aterballetto.it/

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