Cultura

È primavera, celebriamo la fertilità

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lettera dal giappone

È primavera, celebriamo la fertilità

La fioritura dei prugni anticipa quella dei ciliegi e già colora di rosa le colline di Inuyama. La campagna circostante è stata per lo più divorata dagli insediamenti produttivi: la provincia di Nagoya, Aichi, è il cuore industriale del Paese, sede della Toyota e del suo gigantesco indotto. Pochi chilometri più in là, nel nuovo stabilimento della Mitsubishi Aircraft si sta costruendo il nuovo jet a massima efficienza e compatibilità ambientale. Ma nel matsuri (festival) ai templi limitrofi di Oagata e Tagata, il Giappone tecnologico scompare e riaffiora fino a esplodere una ancestralità rurale alla quale la gente mostra di sapersi collegare con sorprendente naturalezza.

L’arrivo della primavera viene celebrato oggi come tanti secoli fa con i riti sacri e popolari della fertilità, in una continuità che testimonia le radici dello scintoismo come culto primigenio della natura perdurante nel sottofondo della società contemporanea. Per l’osservatore occidentale è una scoperta che si tende a inserire in categorie mentali fatte di reminiscenze scolastico-letterarie che finiscono per prevalere sul ricordo delle acute osservazioni sullo shinto di un Fosco Maraini: paganesimo e culti dionisiaci, falloforie e dio Priapo, vitalità fescenninica trasportata di millenni e molte longitudini.

Oagata è dedicato soprattutto al principio femminile che dà vita e rinnova i cicli della natura. Uomini e donne, compunti, chinano due volte la testa, battendo le mani in raccoglimento davanti a una enorme vagina scolpita nella pietra. L’allegra processione si snoda intorno a un mikoshi (altare portatile) che trasporta una grande torta di riso a più piani (kagamimochi) su cui è applicato il simulacro di una enorme aragosta. Le grida di «wasshoi! wasshoi» mutano, al termine del percorso nel tempio, in un liberatorio «banzai» (diecimila anni) di gratitudine propiziatoria per i raccolti e la pesca della nuova annata.

Ci si sposta di pochi chilometri e al sacrario di Tagata si passa a celebrare nel pomeriggio il principio maschile della vita nell’Honen matsuri. Lì tutto è a tema. Nell’attesa dell’arrivo della processione, una lunga fila di oranti si snoda verso il tempio dove il trono è un gigantesco fallo di legno in orizzontale, davanti al quale sono piazzati alimenti e bevande – arance, carote, riso, saké – come offerte votive. Un altro simbolo sessuale maschile di legno più scuro e meno ingombrante, con un collare di paglia, è puntato verso i fedeli, che arrivano e tirano una corda che fa risuonare un campanaccio anch’esso fallico per attirare l’attenzione degli dei. Solito doppio battito di mani e doppio inchino con lancio di monetine nella grata; poi si devia verso un altarino all’aperto passando per un filare di steli di pietra. Ci sono due grandi sfere tra un piccolo membro: quella di destra va toccata per propiziare la fertilità e l’armonia nella famiglia e nel business (soldi compresi), quella di sinistra per favorire l’incontro con un partner e la successiva generazione senza dolore. Intanto i banchetti vendono banane al cioccolato rese anatomiche e altri dolci sul genere: l’impressione che se ne ricava è di naturalezza se sono giapponesi ad addentarli, di volgarità se si tratta di turisti stranieri ridacchianti.

La lunga processione di persone in abiti tradizionali, tra il suono dei flauti, è aperta da un araldo che sparge sale purificatore da entrambi i lati, seguito dal dio Tengu, con la sua maschera rossa dal naso molto allungato, ampie fila arricciate di barba bianca e l’espressione poco rassicurante. Ragazze nubili che in genere dovrebbero avere 36 anni – in abbigliamento bianco e purpureo sormontato da una grande vestaglia di giallo decorato e copricapo sacerdotale nero – portano in braccio, come fosse un bambino, un’inequivocabile pertica di legno chiaro che offrono da toccare ai passanti. Alcuni genitori lo fanno sfiorare alle bambine che tengono in braccio: portafortuna da accostare per catturare salute ed energia vitale, secondo una simbologia diffusa presso molti popoli (una strana eccezione sessuologica della mitologia giapponese, per inciso, riguarda il dio del sole, che è femminile: Amaterasu). L’ingresso nell’area del tempio è rumoroso, soprattutto per il mikoshi con un fallo di legno da due metri e mezzo e 280 chilogrammi (“owasegata”, scolpito ogni anno da un artigiano ricavandolo da un cipresso): viene agitato ritmicamente dai dodici portatori, uomini di 42 anni, – tra grida e stridenti suoni di fischietto – che ruotano più volte prima di posarlo davanti al tempio affiancato da una bandiera con il disco rosso che sventola molto in alto.

Il matsuri di Inuyama è solo uno dei tanti che si svolgono nel Paese. Il Kanamara matsuri di inizio aprile a Kawasaki, per esempio, è il più frequentato – data la vicinanza a Tokyo – da gruppi di residenti e turisti stranieri, che spesso ci vanno in gruppo per una giornata di caciara e foto da postare sui siti web. Mostrandole ad amici e amiche giapponesi di Tokyo, però, spesso incontrano stupore e imbarazzo: il Kanamara matsuri sembra più noto agli stranieri che ai cittadini della metropoli. E allora viene da pensare che le generazioni cresciute in città non siano più esposte alle tradizioni del Giappone rurale e le considerino, al pari del forestiero, un mero retaggio folkloristico sopravvissuto, buono per gli stereotipi sulle “stranezze” giapponesi che continuano a fare notizia all’estero.

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