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Principe dei geografi

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Principe dei geografi

Quando dieci anni fa uscì il romanzo di Daniel Kehlmann, La misura del mondo, molti – anche in Italia – si appassionarono alla storia di due giovani scienziati tedeschi, dei quali prima di allora pochi (con l’eccezione degli studenti di scienze e degli specialisti in cartografia) avevano sentito parlare: il matematico e astronomo Carl Friedrich Gauss e il naturalista e geografo Alexander von Humboldt. Un po’ quello che successe a chi, grazie soprattutto al passaparola, capitò per le mani La notte di Keplero di John Banville. Nessuno, neppure tra i masochisti più impenitenti, avrebbe mai pensato di entusiasmarsi per un racconto epistolare che ha al suo centro la sensazionale scoperta dell’orbita ellittica dei pianeti, l’avventura così ricca di colpi di scena di chi spese diversi anni della sua vita a osservare Marte allo scopo di indagare quel sottilissimo spicchio di superficie che è una via di mezzo fra la forma di un uovo e quella di un cerchio.

L’invenzione letteraria ha questo di assolutamente peculiare: se riesce a catturare l’attenzione e la fantasia del lettore, ha il potere di portarlo dovunque. Persino in luoghi e in mondi insospettati, in cui mai uno avrebbe pensato di andare. E una volta proiettato dentro a situazioni o a vite neppure lontanamente immaginate, poi può accadere un fatto ancora più significativo: che in lui si accenda l’interesse per la storia, o almeno per la storia vera e reale di quella vicenda o di quel personaggio.

Chi è rimasto colpito dalla lettura di Kehlmann oggi può proseguire quel percorso tuffandosi dentro le pagine di un affascinante libro di viaggio che lo porterà nelle misteriose regioni tropicali dell’America Latina. Un’avventura che durò sei anni, dal 1799 al 1804, trent’anni prima del grande viaggio di Charles Darwin sul Beagle, e che ebbe come guida il principe dei geografi, il primo che trasformò il viaggio di esplorazione in autentico viaggio scientifico.

Come scrive Franco Farinelli, mentre «l’esplorazione si accontentava di raccogliere informazioni su una particolare estensione territoriale, utili alle politiche d’espansione coloniale dei singoli governi europei», a Alexander von Humboldt interessava invece «una complessiva e per ciò stessa critica teoria della Terra». Ma per raggiungere questo livello di conoscenza era necessario indagare l’intero globo terracqueo, gran parte del quale – per usare le parole di Humboldt – «giace nascosto sotto la pelle dei fenomeni». E per farlo l’esploratore deve appunto diventare scienziato, saper usare linguaggi e strumenti capaci di rilevazioni barometriche e trigonometriche, tracciare mappe dei campi magnetici, misurare altezze e delineare profili geologici.

Per l’ammiratore della rivoluzione francese e degli ideali repubblicani – che voleva essere chiamato Alexander Humboldt, sopprimendo così ogni riferimento nobiliare dal suo nome – il passaggio da una visione estetico-sentimentale della natura a una comprensione scientifica rientrava in una più generale trasformazione della cultura della società civile. Alla suggestione del paesaggio colto nella sua immediatezza, doveva subentrare prima la scomposizione in termini scientifici di quella totalità «romantica», e poi la ricomposizione di tutti gli elementi singolarmente analizzati in precedenza. Solo in questo modo «la totalità originaria viene trasformata e ripristinata, non più sul piano estetico e dell’impressione sentimentale ma su quello scientifico». Ed è da queste premesse che il “geognosta” Humboldt – così amava definirsi, invece di geografo – sviluppò una geografia verticale, fondata sull’esatta misurazione dell’altitudine di vulcani, montagne, altipiani.

A una geografia di tipo aristocratico-feudale, come nel 1817 polemicamente osserverà il geografo e filosofo Karl Ritter, interessata prevalentemente a fornire informazioni militari, utili al potere politico esistente (che privilegia la rappresentazione orizzontale, perché è sul territorio pianeggiante che si combattono le battaglie e si vincono le guerre), si sostituisce una nuova «visione generale» della faccia della Terra. Ai modelli delle mappe bidimensionali, subentra la filologia, la fedeltà alla natura delle cose, allo scopo di «valorizzare ogni minima differenza e preservare il valore d’uso dei territori attraversati». «La speranza – scrive Humboldt – di raccogliere qualche informazione utile al progresso delle scienze» prende il posto dell’immaginazione e dell’emozione di vedere da vicino una natura selvaggia e maestosa.

Come appunto si verificherà quando in compagnia del botanico e zoologo Aimé Bonpland salperà il 5 giugno 1799 dal porto spagnolo di La Coruña, in quello che verrà ricordato come il viaggio dei viaggi, e che come prima tappa lo porterà fino alla cima del vulcano di Tenerife, all’imponente e misterioso picco del Teide. E qui è il limpido sguardo scientifico di Humboldt a colpirci: «Quando un viaggiatore si trova a descrivere le più alte cime del globo, le cateratte dei grandi fiumi, le tortuose valli delle Ande, si espone al rischio di infastidire il lettore con la monotona espressione della sua ammirazione. Conformemente al compito che mi sono prefisso in questa Relazione, mi sembra più corretto indicare il carattere particolare che distingue ciascuna zona. Tanto più si fa conoscere la fisionomia del paesaggio, tanto più si cerca di delinearne i tratti individuali, di compararli tra loro, e di scoprire, mediante questo tipo di analisi, le fonti di godimento che ci offre il grande affresco della natura». Un «godimento» della Natura che invece di affievolirsi si faceva sempre più coinvolgente e intenso con il crescere del discorso scientifico.

Ecco, forse non ci sono parole più adeguate di queste per capire un tratto essenziale della modernità e che passa sotto il nome di disincanto del mondo. Tutto è perfettamente coerente in queste pagine del Voyage. Così come l’abbattimento di miti e favole. Come quella della ricerca di El Dorado, che si era diffusa tra i conquistadores e trovò conferma nelle quattro spedizioni sull’Orinoco compiute nei primi del Seicento da sir Walter Raleigh: cioè del sovrano indio il cui corpo ricoperto di polvere d’oro si sarebbe dovuto trovare sulle rive di un grande lago, simile al mar Caspio, posto in mezzo alle montagne nella parte orientale della Guyana. E che Humboldt confutò attraverso un viaggio sull’Orinoco compiuto dalla sorgente fino alla foce, dimostrando così l’arbitrio di tante rappresentazioni cartografiche (a cominciare da quelle di Raleigh che aveva percorso l’Orinoco a partire dalla foce ma per appena 60 leghe). Dichiara Humboldt: «Il Dorado, simile ad Atlante e alle isole Esperidi, uscì a poco a poco dal regno della geografia ed entrò in quello delle fantasie mitologiche».

L’unico mito a cui non seppe rinunciare fu quello di credere nella corrispondenza tra gli interessi della borghesia e quelli dell’umanità intera.

Lui, amico di Simon Bolivar, e come il grande libertador acerrimo nemico di ogni forma di schiavitù, si augurò che in tutte le Antille si giungesse presto a eliminare quello che considerava uno fra i mali peggiori del mondo. Intanto però, dietro suo suggerimento, due anni prima di morire, il 24 marzo 1857, il re Federico Guglielmo IV pubblicò una legge in cui si riconosceva che ogni schiavo che avesse toccato il suolo dello stato prussiano sarebbe diventato automaticamente un uomo libero.

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Alexander von Humboldt, Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente , antologia a cura di Franco Farinelli, illustrazioni di Stefano Arienti, traduzione di Giuseppe Lucchesini, Quodlibet-Humboldt, Macerata-Milano, pagg. 266, € 23,50