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Lincoln in poche grandi parole

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lettera da new york

Lincoln in poche grandi parole

«Una casa divisa contro se stessa non può reggersi in piedi»: su questa frase di Abramo Lincoln, ispirata al Vangelo (Marco 3,25) si reggono i nuovi Stati Uniti, quelli nati dalla terribile guerra di secessione e riunificati sotto un’identità condivisa dallo statista. Il quale adesso viene commemorato dagli Stati Uniti in occasione del centocinquantenario della morte, il 15 aprile 1865, pochi giorni dopo l’”inaugurazione” della seconda presidenza.

Tra le tante iniziative in corso (a Washington una mostra è stata organizzata al Ford’s Theater, il luogo del fatale attentato), particolarmente istruttiva è l’esposizione aperta fino al 7 giugno a New York, alla Morgan Library & Museum, intitolata «Lincoln Speaks – Words that Trasformed a Nation» e curata da Richard Carwardine, Declan Kiely e Sandra M. Trenholm. Le parole di Lincoln, quelle lette e quelle pronunciate, sono la migliore chiave per comprendere la sua personalità: le letture accurate della Bibbia di re Giacomo e di Shakespeare, e poi di altri autori (tra i quali il coetaneo Edgar Allan Poe), gli avevano dato il gusto di un’eloquenza mai retorica e magniloquente ma chiara, incisiva e non aliena da un tocco di spirito.

Lincoln amava il ritmo delle parole e la poesia, e aveva composto egli stesso dei versi, come quelli scritti nel 1846, quando già sedeva alla Camera dei Rappresentanti, nei quali prende in giro la sua stessa professione, quella d’avvocato. La mostra spiega come la carriera politica gli fosse stata aperta grazie anche alla sagacia con cui colse il nuovo corso bipartitico della politica americana, che motivava i candidati a cercare l’appoggio popolare con un rapporto diretto, cementato anche dalla forza della parola; e qui il futuro presidente si dimostrò imbattibile, grazie alla propria eloquenza, rivolta espressamente a conquistare la gente umile. Un osservatore diede atto che la «serietà delle convinzioni, la ricchezza di immagini, il potere di argomentazione» di Lincoln non avevano paragoni tra i suoi avversari. La testimonianza forse più toccante di questa prima fase dell’attività politica di Lincoln è un appunto manoscritto, risalente al 1858, nel quale si trova il primo accenno all’argomento della «casa divisa», che Lincoln elabora affermando di non credere che le istituzioni del tempo possano sopravvivere «indefinitamente, metà schiave e metà libere». Non sarà un accenno casuale, come dimostrano le note di un altro discorso elettorale, nel quale rimprovera all’avversario democratico di trascurare la dimensione etica del dibattito pubblico e, segnatamente, della questione della schiavitù.

Dopo essere stato eletto presidente (ed è emozionante leggere qui la proclamazione dell’emancipazione firmata da Lincoln il 1° gennaio 1863), ed essersi trovato nel vortice della guerra, il presidente parlerà in pubblico almeno un centinaio di volte, spesso improvvisando. Le uniche due eccezioni rappresenteranno i capolavori della sua eloquenza: il «Dedication Address» di Gettysburg e il secondo discorso inaugurale, brevi ed efficaci quanto pochi altri. Il primo (lungo un quarto dell’articolo che state leggendo) ha fatto la storia degli Stati Uniti: in occasione dell’inaugurazione del cimitero dedicato alle vittime della battaglia che aveva fatto 50mila vittime, Lincoln riuscì, in tre minuti e 275 parole, a sintetizzare il senso tragico e nobile della guerra civile, inserendola nel processo universale di emancipazione verso la libertà, l’autogoverno e l’eguaglianza. Nel secondo, di poco più lungo, il Presidente lascia in eredità un Paese riunificato contro le velleità provenienti dal proprio stesso partito di infierire contro gli sconfitti.

Ma la questione razziale avrebbe tormentato a lungo gli Stati Uniti; ce lo ha ricordato di recente il film Selma, di Ava DuVernay, sull’epica marcia fino alla capitale dell’Alabama, Montgomery, che si svolse tra il 21 e il 25 marzo 1965, si concluse con uno storico discorso di Martin Luther King e rappresentò una tappa decisiva nel processo di emancipazione degli americani di colore (poche settimane dopo il presidente Lyndon Johnson avrebbe promulgato il Voting Rights Act, per proteggere i loro diritti elettorali). Un’altra mostra newyorkese, «Freedom Journey», in corso fino al 25 ottobre alla New York Historical Society, presenta le foto scattate in quella giornata storica dal giovane reporter di un giornalino studentesco, Stephen Somerstein (che poi sarebbe diventato fisico), finora praticamente mai esposte. Somerstein era riuscito a intrufolarsi tra i vari protagonisti, a partire da King, accanto al quale troviamo una giovanissima Joan Baez e la leggendaria attivista Rose Parks. Un movimento assai meno speranzoso è quello dipinto negli anni 40 da Jacob Lawrence, forse il maggiore pittore afro-americano, che rappresentò in 60 pannelli la biblica migrazione (avviatasi cent’anni fa) delle popolazioni di colore dal Sud rurale al Nord industrializzato degli Usa: la presenta la mostra («One-Way Ticket-Jacob’s Lawrence Migration Series and Other Visions of the Great Movemente North», fino al 7 settembre) dell’intera raccolta, normalmente divisa tra Phillips Collection e Moma, e organizzata da quest’ultimo. Il ciclo è certamente una delle opere più alte e toccanti sulla condizione dei neri: non a caso, ne è stato ritoccato anche il titolo, che originariamente suonava brutalmente «The Migration of the Negro». Il cerchio si chiude ancora alla New York Historical Society dove ritroviamo Lincoln (che accoglie all’ingresso) osservare il percorso della mostra su Selma; lo fa da protagonista, nella stessa sede, di un altro appuntamento, «Lincoln and the Jews» (fino al 7 giugno), che esplora l’impegno per liberare il Paese dalla non meno drammatica forma di discriminazione verso gli ebrei: nei loro confronti, Lincoln mostrò sempre il massimo rispetto, rafforzato anche dalle profonde radici religiose e dalle letture bibliche che gli avevano fatto coltivare il sogno che non poté mai realizzare, quello di visitare Gerusalemme.

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