Cultura

Un calvario lungo 100 anni

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Un calvario lungo 100 anni

La nostra memo ria storica è naturalmente portata a vedere nel dramma del secondo conflitto mondiale l’acme della ferocia umana: l’Olocausto del popolo ebraico, i brutali totalitarismi che hanno annichilito le libertà, l’escalation bellica nucleare sono note dolenti e permanenti nella coscienza umana.

Tuttavia lo storico contemporaneo inglese Niall Ferguson ci ricorda che in realtà il più grande errore della storia moderna dell’Occidente è stato la Prima guerra mondiale, perché, oltre al numero immane di vittime, sviluppò una carica d’odio ideologica intrisa di nazionalismo mai vista . Non a caso gli stessi Trattati di pace di Parigi degli anni 1919-1920 risultarono determinanti nel realizzare – più che una condivisa pace duratura – uno stato di conflittualità nazionalistica permanente le cui braci alimenteranno i crimini della Seconda guerra mondiale. In questo quadro va compreso il calvario del popolo armeno, che fu vittima de facto del primo vero genocidio della storia del XX secolo, perpetrato dal governo turco nel corso della Grande Guerra per ragioni politiche, religiose ed etniche. La qualificazione di genocidio resta problematica, poste le complesse connotazioni di questo crimine di diritto internazionale; se infatti si definisce senza ombra di dubbio lo sterminio della popolazione ebraica durante la Seconda guerra mondiale un atto di genocidio, non altrettanto semplice è risultato ricondurre a tale reato il massacro del popolo armeno da parte del governo turco o di quello cambogiano a opera del regime comunista dei Khmer Rossi. La nozione di genocidio è relativamente recente e fu introdotta dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin nel 1943. Comprende tutte quelle condotte – uccisioni, lesioni gravi, deportazioni, sottoposizione a condizioni di vita particolarmente proibitive – miranti a distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come prevede la Convenzione per la prevenzione e repressione del reato di genocidio del 1948. A partire dal 1915, il governo turco in guerra contro le potenze alleate, Gran Bretagna, Francia e Russia zarista, pianifica un programma mirato organicamente alla eliminazione dal territorio ottomano della popolazione armena – cittadini turchi a tutti gli effetti,si badi – attraverso arresti, uccisioni e deportazioni di massa, marce forzate di migliaia di chilometri e internamento in campi di concentramento in Mesopotamia. Le famiglie vengono smembrate separando i genitori e i figli; la legge temporanea di deportazione del 1915 è prodromica alla espropriazione e liquidazione dei beni dei cittadini armeni. Il frutto di questa strategia portò alla eliminazione fisica di più di un milione di armeni, sebbene le autorità turche abbiano sempre smentito questi numeri.

Perché la Turchia realizzò con scientifica metodicità questa operazione di pulizia etnica ante litteram? Le persecuzioni della popolazione armena si possono comprendere solamente se si ha presente la genesi politica costituzionale del nuovo Stato turco, che si va affermando già dalla fine del XIX secolo sulle crepe del pencolante Impero ottomano, il “grande malato” tra le potenze dell'Ottocento.

Dalla seconda metà dell'Ottocento l’Impero ottomano versa in uno stato di crisi politica istituzionale, che comporta la progressiva perdita di enormi porzioni di territori europei occupati da secoli, l’area balcanica, la Grecia, le colonie del Mediterraneo: questa modificazione radicale del contesto geopolitico della Turchia comporta anche il progressivo venir meno del carattere multinazionale e multireligioso che ha caratterizzato per secoli il modello politico imperiale della Sublime Porta.

Il movimento politico dei Giovani Turchi, dalle cui fila uscirà Kemal Ataturk, il futuro leader e “Padre” della moderna Turchia, risponde al disfacimento dell’Impero ottomano impossessandosi dei leit-motiv più classici delle teorie giuridico-istituzionali dell’Europa ottocentesca: identificazione dello Stato nella nazione, intesa come gruppo omogeneo di lingua e cultura, che non tollera nel proprio seno identità etniche o religiose differenti in quanto attentano potenzialmente all’unità e sopravvivenza politica della nazione turca secondo una logica di darwinismo sociale. Uno dei primi documenti programmatici kemalisti, il Patto Nazionale del 1920, afferma che la popolazione turca ha una comune radice ottomana e musulmana, che la rende unita per religione, razza e finalità. In questa esasperata identificazione dello Stato nel nazionalismo turco si sviluppa il panturanesimo, il mito politico della riunificazione dei popoli di stirpe turca dall’Anatolia agli altopiani dell’Asia centrale che ancor oggi sopravvive e si incarna concretamente nelle strategie geopolitiche di Istanbul nella prospettiva di un’omogenea area asiatico centrale a leadership turca. Armeni e curdi in primis, gli stessi ebrei e cristiani diventeranno così corpi estranei o quanto meno problematici per l’unità nazionale turca in quanto comunità identitarie o minoranze restie all’assimilazione all’ideale panturchista del nuovo Stato.

Le parole inequivocabilmente chiare di aperta denunzia del genocidio armeno da parte del Pontefice Francesco domenica scorsa squarciano ulteriormente il velo dell’anacronistico impianto giuridico istituzionale di impronta nazionalistica che si ostina in questa vicenda storica a fare da scudo di legalità all’etnogenesi della Turchia moderna: l’incandescente reazione della cancelleria turca alle parole del Papa sono la cartina di tornasole dell’importanza che la libertà religiosa – e più in generale ogni libertà delle singole comunità e minoranze etniche e linguistiche – riveste per il pacifico sviluppo delle relazioni tra Stati sovrani nel quadro del diritto internazionale: non si dimentichi infatti che il S.Padre è il successore di Pietro a capo della Chiesa Cattolica nel mondo ma al contempo capo di uno Stato la cui diplomazia opera da sempre con autorevolezza per la promozione della piena libertà di fede religiosa.

La Turchia vive oggi – con riferimento al mancato riconoscimento dell’eccidio del popolo armeno - il paradosso dell’impianto costituzionale nazionalistico del proprio Stato: prova ne sia il richiamo all’articolo 301 del Codice penale turco che prevede il reato di «offese alla nazione turca» per sanzionare chi addebiti espressamente al governo turco di allora le responsabilità per il genocidio.

Si consideri che la comunità internazionale già al termine della Grande Guerra, attraverso il Trattato di Sevres del 1920 richiede che venga istituita una corte di giustizia che processi i responsabili istituzionali dei massacri: il governo reggente succeduto ai Giovani Turchi istituì in effetti una corte marziale che riconobbe lo sterminio della comunità armena intesa come popolo specifico, pur senza riconoscere la catena decisionale di comando e controllo riconducibile a una precisa volontà del governo sovrano turco in carica durante i massacri.La presa del potere definitiva del movimento di Kemal Ataturk nel 1921 porterà a una lunga stagione di rimozione del genocidio armeno dalla coscienza istituzionale turca.

Le organizzazioni internazionali dal secondo dopoguerra a oggi hanno mantenuto una linea pressochè costante di esplicita condanna del genocidio armeno: così nel 1973 la Commissione per i diritti umani dell’Onu qualificò gli eccidi in Turchia come il primo genocidio del secolo, nel 1987 il Parlamento europeo ha riconosciuto il crimine di genocidio, e le istituzioni Ue negli anni hanno ribadito che il riconoscimento da parte della Turchia di tale crimine sia conditio sinequa non per l’ammissione alla Ue. Nota dolente viceversa è data dai singoli Stati: solo poco più di una ventina di Paesi - di cui la metà membri della Ue - ha qualificato espressamente le persecuzioni della popolazione armena come genocidio: segno evidente della mancata convergenza degli interessi degli Stati sovrani rispetto alle comunità sovranazionali in tema di tutela dei diritti umani e di repressione dei crimini penali internazionali.

Docente di Storia del Diritto moderno all’Università europea

di Roma e di Regimi Internazionali all’Università Cattolica

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