Cultura

Milano, Italia

  • Abbonati
  • Accedi
COVER STORY

Milano, Italia

C'è un momento in cui capisci di essere fregato. Alla mattina, apri le imposte per cambiare l'atmosfera fuori con l'aria pulita del sonno e lo vedi. È un'installazione d'arte contemporanea, un dipinto sospeso. Non tanto un Cy Twombly, più tipo quelli dell'amico di Barney Panofsky che invitava i compari a dare un colpo di straccio sulla tela, tanto l'arte è una bufala. Insomma: non è bianco, perché ha le sbavature di grigio. Non è plumbeo, perché non sono cariche d'acqua. Non è nero e non lo sarà mai, perché di notte ci arriva il riverbero equoreo delle luci. Non è nebbioso, perché l'interramento dei Navigli ha dissolto la bruma (e non perché a nessuno importava delle soavi imprecazioni lanciate dalle lavandaie, ma per ragioni di salubrità: ci finivano gli scarichi del centro, ora quel flusso prosaico di deiezioni si chiama poeticamente “collettore”). Allora che cos'è? È l'interno di una lampadina? È l'eco delle polveri sottili? È il bicchiere di latte filmato da Hitchcock nel Sospetto? O è il «grigio fumoso delicato come una perla» di cui parlava Giuliano Gramigna in una poesia? Di sicuro non è un cielo, ma a quel punto ti accorgi che sei fregato perché ti piace. Questa cupola non si perde in struggimenti: qui la nostalgia dell'azzurro è un sentimento che si manifesta in presenza e non in assenza dell'oggetto stesso della nostalgia. Quando c'è, c'è. Inoltre emanciparsi dalle bizze del meteo è il primo segno di maturità.

Benvenuti a Milano.
Scriveva Guido Piovene: «Milano è una città utilitaria, demolita e rifatta secondo le necessità del momento, non riuscendo perciò mai a diventare antica». Perfetto, manca solo un emoji alla fine. Quando esci, ti è del tutto alieno l'incanto stucchevole che si prova altrove: «Non perderti il centro storico», «ce sta sempre Roma», «il nucleo pietroburghese di Torino», «l'Oltrarno è la nostra Rive Gauche», «la grazia/tedio-a-morte della provincia». Niente di tutto questo.

Milano è brutta, ma ci vivrei. E poi non è brutta: è omogenea. L'assenza d'identità ne genera di nuove e la proietta verso il futuro perché tra dismissioni e riattazioni è tutta un non-luogo (parola da rovesciare al più presto in positivo). Ci viene risparmiata l'arroganza del patrimonio artistico, la leziosità della magnificenza, la stasi della nostalgia. Bret Easton Ellis mica ce l'ambienta un romanzo a Parma. A Venezia ti siedi sul telefono e hai già instagrammato una bella foto. Milano assomiglia a un livido che tocchi di continuo e ti piace la fitta al tatto. Non è «una chicca», non è «una meraviglia», non «te la coccoli». Il pregio è che non c'è grande bellezza (parola da rovesciare al più presto in negativo).

È risaputo: la figura emblematica di Milano è il cerchio. Alla sera, mentre arranchi lungo i viali, ne percepisci la forza centripeta. Secondo la leggenda, le mura spagnole viste dall'alto somigliano a un cuore: sarebbe la forma voluta da Filippo III come regalo alla sposa Margherita e manda in sollucchero i ricicciatori del detto sulla città «con il cör in man».

Sulle mura si è inserito lo schema delle circonvallazioni, solchi ribaditi dalle automobili che ricordano i cerchi concentrici rilasciati in uno stagno all'entrata di un sasso mai affondato: il Duomo, la Ka'ba intorno alla quale i milanesi girano. Questa fede laica nel lavoro è un flusso nel quale entri e non esci più. Chi ci vive esecra questo cerchio alla testa, tagliato dalle linee della metropolitana come in una grafica di Rodchenko, ma ne è ostaggio. Vale quello che diceva della vita il protagonista di un romanzo di Philip Roth: «Come faceva ad abbandonarla? Qui c'era tutto ciò che detestava». Questo è vero amore.

È vero: i milanesi non esistono. Ci sarebbe la tirata sui forestieri illustri: Buzzati di Belluno, Toscanini di Parma, Mourinho di Setúbal. Poeti dialettali permettendo (perfino Franco Loi è nato a Genova), non esiste nemmeno una lingua. Proprio nello smarrimento del dialetto, sta una delle forze di Milano. Manca il cantuccio rassicurante del vernacolo e dell'accento subito riconoscibile, fondamentale passaggio per degomorrizzare un Paese ostaggio dello slang di un vicolo di un quartiere di una frazione di un comune di una regione di un Paese che dovrebbe essere europeo. Nessuno usa più frasi fatte buone ormai per pezzi di colore o per i nonni: «Dura minga, va a ciapà i ratt, top questa startup». Basta. Nel concerto agli Arcimboldi, temendo che le storielle borbottate tra una canzone e l'altra non si capissero, Tom Waits si fece insegnare un vaadaviaiciapp che strappò sì la risata, ma più per l'esotismo del motto che per la cosa in sé. Miracolo a Milano: non c'è bisogno di sottotitoli. Non vorrei passare per reazionario, ma quando leggo che senza dialetto si perde autenticità metto mano all'italiano.

«Qui è neutro», mi dice contento il ristoratore pakistano che si spaccia per indiano per attirare più clienti. Ci vedi quello che ti pare: Milano è una città accogliente proprio per la sua anonimità. Ha la vocazione a mutare e a restare se stessa inglobando le forze estranee alla sua vera natura, ad esempio i leghisti e gli ulivi sui balconi dei ricchi, che danno l'allergia a settembre. Non tanto un cuore, quanto un fegato che filtra, sia dal punto di vista ideologico (pensiamo all'illuminismo, al futurismo, al fascismo, al brigatismo, a Gerry Scotti) sia da quello materiale (c'è la 'ndrangheta, bella scoperta, voi reinvestireste in Guinea-Bissau?). Piatta senza monotonia, piccola senza essere provinciale, liquida pur non avendo un fiume, aperta agli altri perché guardinga: tutti luoghi comuni veri. Come il fatto che io non ho nulla contro l'integrazione: anzi, ho un sacco di amici milanesi.

A rivederlo oggi, fa tenerezza. Le luci in Duomo che si spengono con i Weather Report, il Pirellone nella bruma, i piccioni in Galleria, i bambini che vanno a scuola, una riunione tra manager, manovali al lavoro, i vigili che bevono il caffè al bancone, un punk che legge Il Sole 24 Ore, una donna che paga il pranzo con la carta di credito (scandaloso!), un gruppo di fotomodelle, una coppia esce a cena ed è contenta. Chissà perché ancora oggi il wiki sulla Milano da bere identifica questo spot con l'edonismo craxiano, mentre oggi pare normale vita quotidiana, venduta con una leggera euforia da – strano – pubblicitari. Come se quegli anni fossero stati solo quello. Una cosa vera c'era, però: a Milano si beve tanto. Già Bonvesin de la Riva affermava che non basta il vino prodotto da tante città per dissetare i «nostri musciones». D'altra parte non può che essere così per una città che ha tra le maggiori attrattive il cimitero, con le sculture di Fontana e Medardo Rosso (i tram neri che fungevano da convoglio funebre erano soprannominati “giocondi” e lo humour cinicamente sentimentale, il vecchio kabaret «se hai in mano solo mosche / puoi darci anche del tu», ne è un altro sigillo). L'aperitivo, da rito serale di stampo borghese, con le patatine e due olive da Cucchi, s'è aperto alla voracità giovanile, prima con l'happy hour degli anni Novanta, in cui il bicchiere costava la metà, poi sfumato nell'inverso: l'alcolico sempre più caro, con un bancone pieno di roba da mangiare (che ha sfamato molti fuoricorso e anche qualche spostato). Ah, per inciso: io non «faccio l'aperitivo», io bevo.

Certo, se proprio dovessi indicare la mia idea di Milano, finirei col ricorrere a una serie di foto col filtro Retò (per «retorica») che un direttore serio trancerebbe di netto: il raschio dei tram in curva; la quiete lugubre nel weekend di Città Studi; le biblioteche moderne dove vado a lavorare; la sigaretta al labbro di Rattazzo; la Vanoni che scende nella libreria dove lavoravo e chiede a gran voce In culo oggi no (è di una poetessa ceca, edizioni e/o); il tonfo del piatto di brasato sbattuto sul tavolo in un'osteria di via Tadino; incrociare Patrizia Valduga in un bar hipster e sentire sfrizzulare l'endecasillabo; la conferenza di Achille Castiglioni dove capii che era un genio; la cotoletta che mangio in certi localacci con quattro amici scrittori; la prosa di Michele Mari; lo strappo dolente di Jannacci in certe strofe; «ombra più ombra di fatica e d'ira» (Vittorio Sereni, Via Scarlatti); l'incontro con John McEnroe in corso Vittorio Emanuele; i ragazzi cinesi pardon milanesi che ballano alla fermata Lima della metropolitana; lo stile assirobabilonese della Stazione Centrale; la notte in cui ho fatto un incidente in motorino, il responsabile è sceso dall'auto e, visto che non m'ero fatto male, ha chiesto: «Quanto?», mi ha messo i soldi in mano e se n'è andato; il biglietto che mi scrisse Vivian Lamarque; quella sera in cui c'era una luce spaventosamente bella e sopra un brutto cavalcavia mi sono voltato.

© Riproduzione riservata