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Compagna Ada, una vita avanti

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Compagna Ada, una vita avanti

Uomo d'azione oltreché di cultura, nel 1944 Enrico Serra era un dirigente del Partito d'azione nell'Alta Italia occupata dai tedeschi. Ex ufficiale del Regio Esercito, combatteva la Resistenza con invidiabile coraggio, da emissario di Ferruccio Parri (il comandante «Maurizio» del Corpo volontari della libertà) per delicate missioni clandestine. Più volte, in particolare, fu inviato da Milano a Bolzano. In Alto Adige, Serra doveva coordinare misure segrete di assistenza ai prigionieri politici detenuti nel Lager bolzanino di via Resia: il campo di concentramento che nell'estate '44 aveva rimpiazzato il campo modenese di Fossoli quale anticamera della deportazione in Germania.

Fu nel corso di una di queste missioni che Serra trasmise a Milano una raccomandazione significativa. A Bolzano, l'emissario di Parri non si accontentò infatti di rilevare la mancanza di un'«organizzazione centrale» nel sostegno ai prigionieri internati in via Resia. Dal contesto locale Serra volle trarre una regola di genere, che pensò bene di condividere con i suoi referenti milanesi: «Esclusione delle donne dal comitato centrale con funzioni direttive. Servizi delle donne con compiti di sottordine esclusivamente».

Sarebbe sbagliato – è chiaro – impugnare l'appunto altoatesino di Enrico Serra per ricavare chissà quali conclusioni intorno a chissà quale maschilismo degli uomini della Resistenza. Ma sarebbe sbagliato anche trascurare un simile appunto, per non inseguire altro che il mito della «Resistenza perfetta» (secondo il titolo di un libro recentissimo di Giovanni De Luna): il mito di una Resistenza così integralmente realizzata «nelle esperienze esistenziali degli uomini e delle donne che la vissero e la costruirono» (ancora De Luna) da scongiurare qualunque ombra. Una Resistenza talmente perfetta da escludere l'esistenza della pur minima linea di faglia tra ragioni e passioni, teorie e pratiche, uomini e donne.

La raccomandazione dell'emissario di Parri – tener lontano le donne dai vertici del movimento resistenziale – era tanto più grave e più greve in quanto, a Bolzano, una donna aveva responsabilità di direzione nel comitato clandestino del Lager. Una donna eccezionale, il cui profilo meriterebbe di figurare in rilievo nella galleria (mai inaugurata davvero: e anche questo vorrà pur dire qualcosa) delle nostre “madri della patria”. Una donna non solo di animo temerario, ma di fortissima personalità, cui male si attagliano i panni implicitamente dimessi della “staffetta” partigiana. Una donna che si chiamava Ada Buffulini, e che rivive ora attraverso la pubblicazione delle lettere dalla prigionia spedite a un compagno di Milano, il leader socialista Lelio Basso, durante i dieci mesi compresi tra il luglio 1944 e l'aprile 1945. Nei primi due mesi, lettere clandestine da San Vittore. Negli otto mesi seguenti, lettere clandestine dal Lager di Bolzano.

Cresciuta a Trieste, Ada Buffulini si era stabilita a Milano diciottenne, nel 1930, per compiervi studi di medicina. E aveva poi fatto in fretta. Si era brillantemente laureata nel 1936, si era presto sposata con un collega, aveva presto avuto un bambino. Veniva peraltro da una famiglia della buona borghesia, una famiglia timorata di Dio e ancor più timorata del Duce. All'apparenza, poco o nulla la destinava all'antifascismo, meno che mai alla Resistenza. Invece, già nella Milano degli anni Trenta la giovane donna aveva imboccato la strada di un anticonformismo sociale e culturale. Si era separata dal marito medico. Aveva frequentato artisti d'avanguardia. Si era legata d'amicizia a una cugina, Pia Onnis, che studiava la storia della Rivoluzione francese cercandovi i semi del comunismo

Ma anche per Ada Buffulini – come per la maggior parte dei partigiani italiani – la vera scelta di vita non era arrivata prima dell'estate 1943: aveva coinciso con la morte della patria fascista. Nelle febbrili circostanze seguite all'8 settembre, Ada aveva incontrato Basso, si era iscritta al Partito socialista, si era gettata anima e corpo nella lotta contro i tedeschi e i collaborazionisti. Dal novembre '43 era entrata in clandestinità, vivendo per diversi mesi, a Milano, la vita sempre a rischio del partigiano di città. Senza praticare la lotta armata, aveva fatto opera di propaganda sia negli ambienti dell'università sia nella cintura industriale. Donna della Resistenza, Ada si era rivolta alle donne attraverso un giornale clandestino intitolato «La compagna». Eppure non aveva smesso di cercare, intorno a sé, modelli di vita (inevitabilmente?) maschili.

Si direbbe che Lelio Basso, doppia laurea in legge e in filosofia, abbia rappresentato per la compagna Ada il modello stesso dell'intellettuale militante. Nelle lettere da San Vittore, come dal Lager, continuamente ritorna – cartacea epopea resistenziale – il tema di una traduzione di Rosa Luxemburg che il leader socialista le aveva affidato personalmente, e che Ada non era riuscita a completare prima di essere arrestata nel luglio del '44. Scrivendone a Basso, Ada parla di questa traduzione come della sua «creatura prediletta»; ne parla, letteralmente, in termini filiali («È un po' come mio figlio»). Ma è un'altra la figura maschile che progressivamente invade la scena delle lettere clandestine di Ada, e che si direbbe avere incarnato ai suoi occhi il modello di una lotta che trascendeva la politica come la cultura, perché si faceva legge morale. È la figura di un ex operaio comunista, Carlo Venegoni. Un proletario al cento per cento, che prima di combattere nella Resistenza non aveva frequentato altro che l'“università del carcere”, nelle galere di Mussolini. Il rivoluzionario di professione che sarebbe diventato, dopo la Liberazione, il secondo marito della dottoressa Ada Buffulini, e il padre di tre altri suoi figli.

Ada incontra Carlo per la prima volta davanti a San Vittore all'alba del 7 settembre 1944: entrambi stanno per essere trasferiti, con 260 altri prigionieri, al campo di concentramento di Bolzano, per essere da lì – presumibilmente – deportati in Germania. Nel mese e mezzo successivo Ada e Carlo vanno stringendo, durante le ore d'aria nel Lager, una forma di complicità via via più pronunciata. E tuttavia il comunista Venegoni non arriva a fidarsi della socialista Buffulini abbastanza per informarla del piano di fuga che rocambolescamente gli permette, il 26 ottobre '44, di scappare dal campo: per concludere la sua guerra civile, nell'aprile '45, da capo partigiano nella Genova dell'insurrezione.

A Bolzano la compagna Ada rimane quindi, da dirigente del comitato clandestino del Lager, in balìa del chiacchiericcio malevolo dell'uno o dell'altro compagno di prigionia o emissario della Resistenza milanese. Sentendosi sempre più stanca, e sempre più sola. Alla lunga, ha voglia unicamente «di musica, di poesia, di un tantino di serenità!». «E magari anche» – confida a Lelio Basso – ha voglia «di fare all'amore, se troverò ancora qualche moroso libero; ma ormai credo che anche quelli saranno occupati e non ne parleremo più».
Ada Buffulini, Quel tempo terribile e magnifico. Lettere clandestine da San Vittore e dal Lager di Bolzano e altri scritti, a cura di Dario Venegoni,
Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (Mi), pagg. 322, € 22,00

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