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«Fine dining» alla peruviana

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«Fine dining» alla peruviana

  • –Alberto Mingardi

In Perù si mangia benissimo. Si mangia splendidamente nei ristoranti dei poveri, ci si lascia stupire nei ristoranti dei ricchi: a Lima ce ne sono, e tanti, e fra i migliori al mondo, lo dicono le guide, lo confermano i prezzi, da centro di Londra.

La cucina creativa è diffusa non solo nella capitale. A 3.400 metri sul livello del mare, a Cuzco, la massima espressione del fine dining è “Cicciolina”, ristorante al secondo piano a pochi metri dalla cattedrale: il turista di passaggio riesce a prenotare soltanto agli orari più improbabili.

I cuochi d’avanguardia hanno avuto gioco facile, perché la comida peruviana è già un’avventura. C’è dentro un po’ d’Italia, di Giappone, di Cina. Il ceviche è una tradizione centenaria, è però grazie all’influsso giapponese se la caratteristica marinatura al limone è diventata questione di pochi minuti. I cinesi che sono arrivati sin qui, facendo i conti con ingredienti nuovi, hanno dato origine alla chifa, ben prima che il fusion andasse di moda.

L’uomo forse no, ma un popolo è davvero ciò che mangia. Quella peruviana è una cucina meticcia, e per questo straordinaria.

Delle star dei fornelli, Gastòn Acurio è stato l’apripista. Formatosi al Cordon Bleu, è una gastro-celebrità che tiene salotto in televisione e ha ristoranti in tutto il mondo. A Lima c’è “Astrid y Gastòn”, il suo primo locale, ora occupa un imponente edificio coloniale nel barrio di San Isidro.

Nel quartiere, più tranquillo dello spumeggiante Miraflores, si mescolano antico e moderno, ci sono law firm prestigiose e ampie aree residenziali, il nitore globalizzato di H&M e gli scaffali straripanti della magnifica libreria Sur, aperta tutti i giorni fino alle dieci di sera. Al centro di tutto, come fosse il sagrato di una grande chiesa, il circolo del golf. La sua stessa esistenza ha del miracoloso: un’enclave verde, per giunta con diciotto buche, permanentemente circondata da due anelli di traffico di quelli che solo alle prime luci del mattino lasciano scampo ai runner ossessionati, come del resto ovunque, dall’idea di circumnavigare i parchi.

Lima è una città di nove milioni di abitanti e si vede. Attraversare la strada è un’impresa. I semafori, modernissimi, sono ammirati come fossero reperti di una civiltà antica. Che stiano lampeggiando di un colore o di un altro, fa poca differenza. Il rosso e il verde, le strisce bianche per il passaggio pedonale, sono simboli estranei alla cultura locale.

La città è sfacciatamente viva. Si capisce di stare in un Paese che dal 1994 al 2013 è cresciuto in media del 5,5% l’anno. La progressiva liberalizzazione dell’economia ha attratto investimenti e sorretto la creazione di ricchezza. La miseria resta una presenza costante e terribile, specie nelle aree rurali. Il 23,9% della popolazione si arrabatta sotto la soglia di povertà; nel 2009 era il 33 per cento.

Vent’anni fa, i terroristi maoisti di Sendero Luminoso rappresentavano una minaccia reale. Pur con tutti gli errori che ha commesso, va ad Alberto Fujimori, il presidente del golpe nel 1992, il merito di averli sgominati. Certo non con le carezze, né con le carezze si sarebbe potuto. Populista di successo, tutt’oggi non privo di fan e nostalgici, Fujimori ora è in carcere ma sua figlia Keiko è candidata alla presidenziali del 2016. Ha già corso quattro anni fa, perdendo contro Ollanta Humala. Humala, ex militare, è accusato di essere poco attento alle ragioni della sicurezza, tema importantissimo in un Paese dove il tasso di criminalità rimane elevato. Le elezioni le vinse grazie all’endorsement di Mario Vargas Llosa. Lo scrittore premio Nobel, in Perù, è a sua volta un ex candidato alla presidenza (nel 1990) e una celebrità che, se solo ne avesse voglia, potrebbe reclamizzare dentifrici e detersivi. Il principale strumento di propaganda politica, in Perù, sembrano essere i murales. Non a Lima, sui suoi muri si rincorrono le stesse immagini che tappezzano ogni grande città: scarpe, hamburger, smartphones. Ma che si vada a sud oppure a nord, la politica si prende il monopolio dei mattoni. È una propaganda dispendiosa, divora pareti intere, e tuttavia sobria. Si limita a una ripetizione ossessiva del nome del candidato: Keiko, Humala, Pedro Pablo Kuczynski. Fa impressione trovarci, sui muri, anche la sigla PPK. Rimasto fuori dal ballottaggio nel 2011, PPK è un signore di quasi ottant’anni, studi fra Oxford e Princeton, alle spalle un cursus honorum impeccabile fra banca centrale e grandi istituzioni internazionali. È come se da noi i graffitari inneggiassero a Lamberto Dini.

In Perù, si sa, ci si viene per vedere le rovine Inca (facendo benissimo, Machu Pichu è uno spettacolo che leva il fiato). Nel 1927, Louis Baudin dava alle stampe un lavoro illuminante, L’Empire socialiste des Inka. Gli Inca, spiegava Baudin, erano riusciti attraverso un rigido controllo burocratico a bandire «povertà e indolenza» ma per la stessa ragione «avevano prosciugato le due grandi sorgenti del progresso, lo spirito d’iniziativa e la giusta preoccupazione per il futuro».

Per spiegare la prosperità che ora i peruviani stanno faticosamente raggiungendo, bisogna invece chiamare in causa l’anarchia. Nel Valle Sagrado, tappa obbligata fra Cuzco e Machu Pichu, staziona una flotta infinita di tuk tuk e mototaxi, motocarri coloratissimi attrezzati alla bell’e meglio per il servizio passeggeri. A Lima si stima ci siano trecentomila taxi o presunti tali. Non c’è bisogno di Uber, perché il Paese si è uberizzato da solo. Chiunque abbia una patente cerca opportunità, in un settore dove la sola barriera all’entrata è il possesso di un’automobile. Qualcuno, come Felicito Yanaqué, protagonista dell’Eroe discreto di Vargas Llosa, farà fortuna organizzando il lavoro proprio e altrui. Un grande vittoriano, Samuel Smiles, ha scritto biografie edificanti di uomini illustri e un piccolo classico, Self Help, elogio dell’abnegazione come mezzo per innalzarsi al di sopra della povertà. In Italia venne tradotto col titolo Aiutati che il ciel t’aiuta, in spagnolo Auto-ayuda, che è per l’appunto quel che fanno qui.

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