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Questo articolo è stato pubblicato il 01 giugno 2015 alle ore 15:05.
L'ultima modifica è del 15 maggio 2015 alle ore 08:55.

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“L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Questo spiega il Codice. Ed è una premessa.
Diciamo infatti associazione mafiosa e pensiamo a Cosa Nostra (sempre meno per la verità grazie alla straordinaria opera di contrasto di questi ultimi anni) ; diciamo associazione mafiosa e pensiamo alla Camorra; diciamo associazione mafiosa e pensiamo alla ‘Ndrangheta (in entrambi i casi sempre di più, purtroppo).

Insomma associazioni mafiosa quasi come sinonimo di “organizzazioni criminali di stampo mafioso”, finora. Fino allo scorso 2 dicembre quando sui giornali finisce una “cosa” chiamata Mafia Capitale. Una cupola che, secondo la Procura capitolina, si è avvalsa “della forza dell'intimidazione del vincolo associativo della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici…”. Ovvero, la mafia che si libera dall'abito delle “tradizionali” organizzazioni per acquisire nuova veste, farsi sistema, sistema di governo. “L'orgia della corruzione”, l'ha definitiva Nando dalla Chiesa nella prefazione a “Mafia Capitale – L'atto di accusa della Procura di Roma” dei giornalisti Gaetano Savatteri e Francesco Grignetti, in libreria per Melampo.

Non un saggio in senso stretto, ma una sorta di percorso guidato tra le migliaia di pagine redatte dai magistrati. E qui sta la novità di questo testo: nelle parole dei magistrati, prima ancora della materia processuale, c'è un precisa, dettagliata e articolata istantanea della realtà. Che merita di essere restituita, chiarendo certo che quanto scritto non è definitivo, ma che il giudizio finale - quello processuale - dovrà essere divulgato con la medesima perizia (l'impegno in questa direzione è ben chiarito). Servono nuove chiavi di lettura, nuove strumenti di comprensione. Serve un nuovo linguaggio della divulgazione.
Scrive Nando Dalla Chiesa nella prefazione: “Ci sono vicende giudiziarie che hanno il potere di illuminare lo stato di un paese. E' stato così per il maxiprocesso di Palermo, per Tangentopoli, o per l'operazione Crimine-Infinito che nel 2010 ha scoperchiato il potere della ‘ndrangheta su pezzi interi della Lombardia. Mafia Capitale è sicuramente una di queste”.

Una trattazione che nella sua specifica scelta stilistica è documentario e documentazione. Perché “è evidente che si tratta di materiale d’eccezionale interesse pubblico... A sapere, a capire. Non a sapere se uno specifico personaggio ha commesso uno specifico reato, ma a conoscere la trama delle relazioni, i modi di pensare, i linguaggi, l'idea di politica, la stessa antropologia culturale”. Una novella storiografia che ha il merito soprattutto di permettere a chiunque di conoscere senza invadenti mediazioni: “Leggere atti pubblici, stesi in nome della Repubblica, per mettere alla prova dei fatti i propri convincimenti, per orientare con più consapevolezza le proprie scelte pubbliche”.

(“Mafia Capitale”, a cura di Gaetano Savatteri e Francesco Grignetti. Melampo Editore, pagg. 327, 14 euro).

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