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Mussida, concerto d'addio alla Pfm: «Ora una mostra alla…

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intervista

Mussida, concerto d'addio alla Pfm: «Ora una mostra alla Triennale, poi torno alle canzoni»

«Gente come Mick Jagger coltiva il proprio mito e gli riesce anche bene. Non è così che mi vedo: sono piuttosto un ricercatore, uno che insegue il nuovo e punta sempre a spostare più in là l'asticella. So che il tempo a disposizione non è infinito e allora provo a scrivere un'altra pagina». Franco Mussida, 68 anni, 45 dei quali da anima compositiva della Premiata Forneria Marconi, sta per salire per l'ultima volta sul palco con Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, compagni di una vita spesa a «suonare e suonare».

Con la sua chioma indomabile negli anni Settanta è stato un'icona della rivoluzione progressive, l'unica stagione in cui l'Italia, in fatto di rock, più che seguire è arrivata a guidare Usa e Uk. Quello del 29 aprile al Teatro Olimpico di Roma sarà l'ultimo concerto della Pfm con l'inconfondibile suono della sua chitarra, un live act che «metterà insieme – spiega il musicista - pezzi storici del nostro repertorio e divagazioni strumentali tratte da “Stati di immaginazione”, un disco del 2006 cui tengo molto». Ma è anche un'occasione per fare i conti con il proprio passato: «L'emozione – continua Mussida – è fortissima. Dividerò per l'ultima volta la scena con persone cui voglio assai bene, suonerò per l'ultima volta brani cui sono profondamente legato, anche perché in molti casi li ho scritti io. È un pezzo di me che se ne va. Inevitabile che ci sia della nostalgia, ma preferisco che rimanga in fondo. Quella che conta è la magia del rapporto che riesci a istaurare col pubblico. Il tuo pubblico».

Partiamo dal futuro. Adesso che lascia la Pfm, dal 12 al 28 giugno, porterà alla Triennale di Milano la mostra «Musica: respiro celeste». Come nasce questo progetto?
C'è un filo conduttore che unisce tutte le ricerche condotte negli ultimi anni: l'attività di formazione svolta attraverso il Centro Professione Musica, lo studio degli intervalli, sfociato due anni fa nella pubblicazione del libro «La musica ignorata», il progetto Co2 che da aprile dell'anno scorso stiamo portando avanti nelle carceri di Monza, Opera, Rebibbia e Secondigliano. La mostra alla Triennale si può dire che è il punto d'arrivo di queste ricerche: è una mostra esperienziale, pensata come un enorme pianoforte suonato dalle persone che entreranno. Ciascuno sarà un «tono». L'idea è quella di rappresentare quel particolarissimo «dialogo tra cielo e terra» che è la musica stessa: i visitatori vedranno dei «soli ideali» sulla propria testa, mentre da terra si staglieranno delle «domande», rappresentate da 13 elementi scolpiti. Un'istallazione con una precisa simbologia che ha lo scopo di codificare la musica. E che finisce in un'audioteca all'interno della quale saranno raccolti gli esperimenti condotti nelle carceri con il progetto Co2, dove ai detenuti abbiamo offerto la possibilità di mettere in relazione, grazie alle tecnologie digitali, stati d'animo prevalenti e brani di musica strumentale.

Ha preso comunque in considerazione la possibilità di tornare alla forma canzone, attraverso incisioni o tour solisti?
Mi sono dato due anni di tempo per portare avanti questi progetti dagli esiti imprevedibili. Sarebbe bello arrivare a una sintesi delle esperienze in questione in uno spettacolo musicale che magari parta proprio dalla forma canzone. Ritengo che quelli della mia generazioni abbiano ancora tanto da dire e tanto da dare. Il mondo contemporaneo lo comprendiamo fin troppo bene, ma lo troviamo noioso. Il problema è che spesso abbiamo paura di ammetterlo, nel timore di non piacere alle nuove generazioni. E invece bisogna trovare il coraggio di dire: ragazzi, io vado da un'altra parte.

Qui esce fuori il tema del conflitto generazionale. Ha mai pensato all'idea di produrre artisti giovani, magari usciti dal Centro Professione Musica?
Questione interessante. Quando 30 anni fa ho fondato il Cpm mi sono detto che due cose non doveva diventare: un'agenzia e una casa discografica. Mi interessava e mi interessa formare i mestieri della musica, perché il talento è importante ma la formazione è fondamentale, soprattutto se cerchi un lavoro. Se penso agli autori in circolazione, un grosso limite dei giovani è che vogliono lavorare poco e per lavorare intendo perdere intere giornate intorno a un'idea, raffinarla, farla crescere. È così che si arriva a comporre opere che restano. Purtroppo ascolto tanta istintività buttata lì, incisa senza pensarci su troppo. È come se tutti, senza scendere a fondo, volessero fare un diario di quello che capita loro, ma di diari in questi anni abbiamo fatto indigestione. Forse una guida potrebbe essere loro utile. E poi l'idea di dare fiducia ai ragazzi mi piace. Chissà…

Facciamo un gioco. Guardiamoci per un attimo dietro le spalle: ultima esibizione con la Pfm. La prima se la ricorda?
Maggio 1971, Festival di musica d'avanguardia e nuove tendenze a Viareggio, nostra prima uscita ufficiale con quel nome. In furgone da Torino a Milano gli altri dormivano, ma io non riuscivo a togliermi una melodia dalla testa. Presi qualche appunto e, arrivato a destinazione alle tre di notte, registrai tutto. L'indomani ci vedemmo a casa di Flavio Premoli e lavorammo su quell'idea. La canzone che ne venne fuori avrebbe vinto il Festival.

E che canzone: «La carrozza di Hans». Oggi potrebbe mai vincere un festival?
Probabilmente no, perché c'è poco tempo per ascoltare musica.

Continuiamo con il gioco. A quale disco della Pfm è più legato?
Me ne servono almeno tre: «Storia di un minuto» per la veemenza e la naturalezza con cui riuscimmo a far arrivare il nostro messaggio, «Fabrizio De André in concerto con Pfm» per quello che si riuscì a tirar fuori dalla musica e poi l'ultimo «Pfm in classic», una sfida coraggiosa, importante, «maleducata», almeno alle orecchie di un purista della musica classica.

Un'ultima domanda. Nello show business non c'è mai nulla di definitivo. Tornerà mai sul palco con Franz e Patrick?
Tutto è possibile nella vita, ma il mio è un addio, una decisione definitiva. Siamo «anzianotti», mi piace l'idea di concentrarmi su novi progetti, continuare a fare ricerca. Consapevole del fatto che il tempo a disposizione non è infinito.

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