Cultura

Parlare di sé senza la prima persona

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Parlare di sé senza la prima persona

Annie Ernaux è il perfetto punto di incontro di due tendenze che caratterizzano nel profondo la letteratura francese contemporanea (e non solo contemporanea): da una parte una forte inclinazione sociologica, dall'altra una vena autobiografica: Houellebecq e Carrère, per dire i due oggi più famosi. Considerata una delle voci più importanti dell'attuale narrativa d'Oltralpe, deve la sua autorevolezza a un insieme di opere pubblicate negli ultimi quattro decenni. Alcuni suoi libri sono stati tradotti in passato da Rizzoli, l'anno scorso L'orma editore ha pubblicato Il posto, uno dei suoi romanzi più riusciti, ma il libro più bello e definitivo, quello che l'ha consacrata agli occhi della critica e fatta conoscere a un pubblico più vasto, è Gli anni (tradotto da Lorenzo Flabbi, sempre per L'orma). Pubblicato in Francia nel 2008, questo romanzo è quello che si dice il libro di una vita, quello che Ernaux non ha mai smesso di scrivere o di meditare, il punto più alto di una lunga e coerente ricerca artistica.

Si tratta di un'autobiografia “esterna”, indiretta, dove non è mai utilizzata la parola “io”. Al suo posto si alternano la terza persona, la prima plurale, e l'impersonale “si”. A questa peculiarità grammaticale corrisponde un modo di rappresentare la materia sociale, collettiva, storica di cui è composto l'individuo molto vicino a quanto ha fatto Georges Perec nelle sue opere autobiografiche (in particolare l'autobiografia costruita di ricordi comuni, dettagli pop, televisivi, commerciali, intitolata Mi ricordo) o Michel Tournier nel suo Journal extime.

La profondità psicologica, i nostri piccoli e spesso meschini segreti, tutto ciò a cui attribuiamo un valore assoluto rispetto alla nostra identità, sembra escluso dal racconto.
In primo piano, a partire da una serie di descrizioni di fotografie in cui si riconosce, mai nominata, la scrittrice, vediamo sfilare un lungo repertorio di fatti storici: la politica, la cultura, le merci, la tecnologia, dalla fine della guerra (Ernaux nasce nel 1940) a oggi. È un ritratto generazionale, la storia di una borghesia di sinistra sempre più disincantata e disaffezionata alla politica, che ha creduto nella rivoluzione, poi in Mitterand, ed è finita a votare Chirac contro Le Pen nel 2002, ritrovandosi infine, insieme ai propri figli, a consumare prodotti bio e serie tv in un clima di ripiegamento individualistico.
Numerosi riferimenti alla società francese non diranno molto al lettore italiano, ma c'è qualcosa di più profondo ed essenziale che rende questo romanzo un libro in qualche modo universale, e una delle opere autobiografiche più originali degli ultimi anni: un sentimento filosofico che prende corpo nelle fluttuazioni della storia, nelle peripezie sociali, nelle vicende di una vita (quella di Ernaux, della società, del lettore, o chiunque sia il protagonista di questa storia) dove tutto ciò che conta – infanzia, amore, malattie, morte – sembra collocato su un piano cartesiano (elenchi, inventari), neutro e oggettivo come lo stile piatto, atono, della scrittura. Eppure tutto pesa, tutto è carico di intensità.

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