Gentilissimo direttore, dopo aver letto nel Memorandum del 5 aprile la lettera di Elvira Russo, ho sentito la necessità di condividere con lei e con voi la mia esperienza di vita che può essere intesa non solo come un confronto ma anche come una risposta alle considerazioni di Elvira. Sono un self made man, cresciuto dal nulla, da una famiglia di onesti operai che come tante altre famiglie del Nord industriale aveva l’ambizione di avere un figlio «impiegato», col diploma e il posto fisso. Ho studiato, ho lavorato, mi sono laureato, ho fatto diverse esperienze, ho percorso tutti i gradini della trafila amministrativa aziendale sino a dirigente, a direttore generale, ad amministratore delegato. Questo non mi ha impedito di avere una famiglia serena anche se il tempo per gli svaghi, per la moglie e per i figli è sempre stato poco. Ripetutamente mi sono messo in gioco, con tanto sacrificio ripagato dalle tante soddisfazioni, ma ho dovuto sempre impegnarmi con estrema determinazione. Tante volte ho convissuto con amarezze e preoccupazioni per le scelte e le decisioni che il mio ruolo imponeva.
Ho risollevato realtà aziendali che erano ormai senza prospettive, senza strategie, che presentavano risultati economici e gestionali assolutamente insoddisfacenti, non con la politica dei tagli, la più facile e la più seguita dai cosiddetti manager rampanti, ma con il coinvolgimento di tutti, con il lavoro “in trincea”, con tanta umiltà e disponibilità all ’ascolto e al dialogo. Eppure, anche a me è toccato a un certo punto rendere conto di tutto questo. E quel che è peggio l’ho dovuto fare a persone incompetenti, ignoranti, arroganti, che per le cicliche periodiche vicissitudini che ogni azienda attraversa, si presentano come i «nuovi consiglieri» della proprietà con poteri assoluti e nessuna responsabilità. Persone senza nessuna formazione etica e senza nessuna conoscenza dell’azienda, se vogliamo intendere l’azienda non solo nella sua classica definizione ragionieristica, ma come un agglomerato di vita e di interessi comuni. Persone, che solo per fare un esempio, in un’istituzione senza fini di lucro, si preoccupano in primo luogo di chiudere l’asilo nido aziendale, di cedere l’attività di una scuola materna, di annullare una convenzione comunale per l’utilizzo gratuito di alcuni posti letto per ricoveri di sollievo a favore delle persone meno abbienti, solo perché queste attività presentano una perdita di qualche migliaio di euro, rispetto a un utile globale dell’attività istituzionale di svariati milioni di euro!
Ho dovuto soffrire, ho dovuto contare i giorni che mi mancavano per potermi ritirare dal lavoro, nauseato, sconvolto da una realtà in cui avevo profondamente creduto e che non mi riconosceva più e che a mia volta non riconoscevo, sconfitto e amareggiato da tanta palese meschinità e ignoranza. Mi sono ritirato senza più nessun desiderio di rivivere altre esperienze di lavoro, con la sola voglia di rifugiarmi lontano e di dimenticare. Ma, ed è questo che voglio dire ad Elvira, il tempo è galantuomo. Nonostante le profonde ferite morali e la mia convinzione di non voler più correre il rischio di rivivere simili esperienze, oggi sono tornato alla guida di una nuova azienda grazie alla dimostrazione di fiducia di un imprenditore che ha vinto tutte le mie riluttanze ad accettare un nuovo incarico con una semplice frase: «Queste sono le chiavi dell’azienda. Faccia lei». Perché il lavoro, l’onestà, la professionalità ripagano, sempre, sia pure anche solo con la soddisfazione che sento dentro di me ogni qual volta incontro un vecchio collaboratore che mi ringrazia per quanto insieme è stato fatto, che mi ricorda, che mi stringe la mano e nei suoi occhi vedo rispetto e riconoscenza sincera.
Paolo Merla, Bergamo
P.S. Nel frattempo, a riprova che il tempo è galantuomo, «i nuovi consiglieri» della mia dolorosa esperienza sono stati allontanati, anche se un po’ troppo tardi rispetto ai danni permanenti che la loro presenza ha comportato alla struttura aziendale.
«I nuovi consiglieri sono stati allontanati anche se un po’ troppo tardi rispetto ai danni permanenti che la loro presenza ha comportato alla struttura aziendale». Questa frase di Paolo, da Bergamo, figlio di «onesti operai» del Nord industriale, che si è laureato e ha scalato la carriera di manager fino a diventare amministratore delegato, non mi esce dalla testa. Penso a questa frase e rivedo davanti agli occhi l’amarezza stampata sulla faccia di Gabriele Pescatore, l’uomo che guidò la prima Cassa del Mezzogiorno, una struttura tecnica di meno di trecento ingegneri che fece arrivare in Italia i primi soldi esteri, portò l’acqua in Sardegna e contribuì in modo decisivo al miracolo economico italiano, quando mi raccontava di avere appreso dal Tg1 delle venti di essere stato sostituito senza che nessuno, dico nessuno, avesse avuto la buona educazione non tanto di ringraziarlo ma almeno di avvisarlo.
Con la sua uscita di scena si compì l’assalto partitocratico a una delle strutture tecniche di sviluppo più efficienti a livello globale, i dipendenti da trecento bravi diventarono diecimila assunti con il più rigoroso dei manuali Cencelli, non si fecero più opere, non si seppero manutenere quelle importantissime già fatte che segnarono l’uscita del Paese dalle macerie della guerra e da uno stato di economia rurale a quello di economia industriale, si fecero solo assistenza, clientele e sprechi fino a trasformare un gioiello di modernità lodato dalla comunità internazionale in un maxi-carrozzone sinonimo di ruberia che tanto ha nuociuto alla crescita della parte sana e competitiva del nostro Mezzogiorno e molto ha contribuito a rimuovere dalla coscienza nazionale l’irrisolta, anzi aggravatasi, questione meridionale. I «nuovi consiglieri di fiducia» posero le basi per il fallimento di quell’esperienza di successo e il prezzo carissimo di quell’errore lo paghiamo ancora oggi visto che continuiamo a essere tra gli ultimi nell’utilizzo dei fondi comunitari, abbiamo dissipato un patrimonio di competenze e di valori che non si inventano dalla sera alla mattina e constatiamo ogni giorno la fatica che pure si sta compiendo per ricostituire quel patrimonio perduto mettendolo al passo con i tempi e restituendo al Paese quella macchina pubblica di cui ha vitale bisogno. I «consiglieri di fiducia» che segnarono il dopo-Pescatore e i «manager rampanti» di oggi custodiscono dentro di sé la profondità della crisi etica, gestionale e amministrativa che attanaglia questo Paese e che può essere affrontata e risolta solo con un bagaglio di umiltà, visione politica e intelligenza tecnica incompatibile con semplicismi di maniera. Viviamo momenti ancora difficili dove si continuano a consumare nelle aziende pubbliche e private drammi personali sotto l’effetto di una crisi che non ha precedenti ma anche sull’altare di logiche miopi, affarismi e scorciatoie illusorie. La fiducia ha bisogno di verità e di trasparenza, passò di qui il miracolo economico italiano negli anni del dopoguerra, il resto lo fecero giovani di talento, un combinato unico al mondo di uomini delle imprese e dell’artigianato, un sistema pubblico che sapeva rispettare le regole ed esprimeva cultura industriale, lo fecero gli italiani che avevano deciso di ripartire. Oggi, in un quadro ancora più complicato per effetto di una crisi più lunga di quella del ’29 e in un sistema globalizzato dove ciò che avviene dall’altra parte del mondo spesso incide sui nostri bilanci familiari, servono la stessa visione politica e la stessa spinta etica di quella stagione quando intelligenza tecnica, cultura laica e riformismo cattolico si intrecciarono e agirono unitariamente. Gli italiani devono tornare a credere a ragion veduta, oggi come allora, nel loro futuro.
roberto.napoletano@ilsole24ore.com
© Riproduzione riservata