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Settant'anni (con due album e un concerto a Napoli) per Keith Jarrett, il jazz che s'è fatto pianoforte

Da quando il jazz è uscito dai club di Harlem per entrare nelle aule d'università di mezzo mondo, la stampa più o meno specializzata ha cominciato a divertirsi con il gioco delle classifiche: ecco a voi i cinque artisti più importanti, i dieci album più influenti, i quindici esecutori che dovete assolutamente vedere prima di morire. Che troviate o meno divertente il gioco in questione, qualsiasi classifica prendiate, lui c'è e questo dovrà pur significare qualcosa.

Come Louis Armstrong, Charlie Parker e Miles Davis prima di lui, Keith Jarrett «è» il jazz. Sin dalla giovine età lo ha sempre suonato divinamente, a maturità raggiunta ha contribuito a trasformarlo e, oggi, più che suonarlo lo impersona. A dispetto delle bizze del personaggio, dello stile «cantabile» delle sue improvvisazioni che vanta innumerevoli tentativi di imitazione e della «sindrome da affaticamento» che storicamente lo accompagna. L'8 maggio compie 70 anni, cifra tonda di quelle che non passano inosservate. In più esattamente 40 anni fa usciva per Ecm, leggendaria etichetta discografica tedesca fondata da Manfred Eicher, «The Köln Concert», lunga improvvisazione in due parti che ha rivoluzionato il meno rivoluzionabile tra gli strumenti. Se la musica è un pezzo fondamentale della vostra esistenza, l'8 maggio è allora un giorno che vi riguarda. Due uscite discografiche e un concerto sono perfetti per celebrare l'evento, ma se credete che la circostanza si avvicini anche solo di striscio a un'operazione commerciale siete fuori strada.

«Creation» e l'omaggio a Barber e Bartók
Ecm saluta la data del settantesimo tirando fuori insieme «Creation» e «Barber/Bartók/Jarrett», due album che, ascoltati in parallelo, rendono perfetta testimonianza della geniale versatilità del genio di Allentown. Da un lato il jazz, dall'altro la classica, su un versante il pano solo che improvvisa in scena inseguendo l'estasi di un momento, sull'altro l'interprete maniacale che declina al dettaglio lo spartito diventando una sola cosa con esso. «Creation» è il resoconto dei concerti che Jarrett l'anno scorso ha tenuto a Tokyo, Toronto, Parigi e Roma, con il tratto nervoso della sua arte (le prime quattro parti) che si scioglie nella melodia di Part V, per lasciare spazio allo straniamento (Part VI), al pathos (Part VII), a echi minimalisti (Part VIII) e ancora a qualcosa che si avvicina alla forma canzone (Part IX). «Barber/Bartók/Jarrett» va inteso come un omaggio a due compositori che hanno la formazione del pianista di «El Juicio». C'è il concerto per pianoforte opera 38 di Samuel Barber, compositore americano scomparso nel 1981 che fuggì dall'irrequietezza sperimentale della sua epoca rifugiandosi nella melodia (vi ricorda qualcuno?). C'è il concerto per pianoforte numero 3 dell'ungherese Béla Bartók (stesse origini del Nostro), artista irrequieto che, a cavallo tra Otto e Novecento, tentò una sintesi tra schemi compositivi di Oriente e Occidente. Uno specialista quando si trattava di far saltare gli steccati (anche qui: vi ricorda qualcuno?). Ed è un piacere sentire il pianoforte di Jarrett che ingaggia quasi un corpo a corpo con l'orchestra. In ultimo si torna al piano solo di «Nothing but a dream», bis del concerto a Tokyo del 1985 che dimostra, a chi ancora non l'avesse capito, come la musica del genio di Allentown si inserisca alla perfezione sul solco di una certa musica classica.

Il ritorno a Napoli
La ricorrenza offre in ultimo agli ascoltatori italiani la possibilità di farsi un terzo regalo: lunedì 18 maggio Jarrett terrà infatti al Teatro San Carlo di Napoli l'unica data italiana del suo tour europeo in piano solo, prima esibizione dal vivo dopo il settantesimo compleanno. È la quinta volta che lo si vede ai piedi del Vesuvio, dopo i concerti del ‘96 al Teatro Bellini (piano solo), del 2005 all'Arena Flegrea (in trio con Jack DeJohnette e Gary Peacock), del 2009 (piano solo) e del 2011 (in trio) sempre al San Carlo. Come spesso accade nel suo caso, gli aneddoti leggendari anticipano l'artista. Nel 2005 pretese la presenza di enormi stufe da esterno sul palco. Eppure era il 12 luglio. Sei anni fa raggiunse Napoli due giorni prima dell'esibizione, per meglio «assaporarne» le atmosfere primaverili (era il mese di maggio), le stesse che ispirarono i vari Gioacchino Rossini e Gaetano Donizzetti, veri e propri habitué del San Carlo. Stavolta pregusta: «Nell'ultimo concerto che tenni a Napoli, la gente fu molto rispettosa e silenziosa, capace di entusiasmarsi e al tempo stesso restare raccolta. Quell'atmosfera unica credo possa ancora trasformare la mia musica in un miracolo». Eggià: quest'ultima per lui è l'unica cosa che conta. Da Settant'anni a questa parte.

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