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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2015 alle ore 08:14.
L’impostura pare la vocazione più intima dei Friedland: recitare un ruolo posticcio nella grande farsa sociale, rinunciare a trovare la propria vocazione, il proprio destino. La loro fine sarà casuale e forse tragica come quelle ricostruite nel romanzo Famiglia di Arthur: «Fatum. La grande F. Ma il caso è potente, e d’improvviso ti assegna un destino che non era mai stato il tuo. Una specie di destino casuale».
Eppure c’è anche qualcosa di commovente nel racconto dei tragicomici fallimenti esistenziali dei tre fratelli. Per esempio, Ivan mette a nudo così la sua strana vocazione: «Penso spesso agli artisti del Medioevo. Non si firmavano, erano artigiani che facevano parte delle gilde, venivano risparmiati dalla malattia che si chiama ambizione. Si può ancora fare come loro, si può lavorare senza prendersi troppo sul serio – dipingere senza essere un pittore? L’anonimità non serve, è soltanto uno scaltro nascondiglio, solo una diversa forma di ambizione. Ma dipingere nel nome di un altro, questa è una possibilità che funziona. E, cosa di cui mi stupisco continuamente, mi rende felice». Le ragioni e le motivazioni, e persino una certa nobiltà d’animo, dunque non mancano. Sono però intrise e trasfigurate dalla dura realtà, dalla debolezza del volere e dalla fortuna. Alla fine un valore paradossalmente rimane impresso nella mente del lettore in tanta falsità e generale distruzione di certezze: la sincerità, accompagnata dalla volontà di evitare facili forme di suggestione e di autoinganno, come quelle messe in atto dall’ipnotizzatore da quattro soldi da cui i nostri eroi si erano recati un noioso pomeriggio qualsiasi, e da cui si diramano le loro storie.
Daniel Kehlmann, I fratelli Friedland , traduzione di Claudio Groff, Feltrinelli, Milano, pagg. 270, € 17,00. «Il Caso, grande inventore» è il titolo dell’incontro con Kehlmann al Salone del Libro di Torino, sabato 16 maggio alle ore 14,30.