Cultura

Arthur il fatalista e i suoi tre figli

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Salone del libro di Torino

Arthur il fatalista e i suoi tre figli

Già autore, trentenne, de La misura del mondo - in cui intrecciava le vite del genio matematico Gauss e del grande viaggiatore e geografo von Humboldt - l'oggi quarantenne Daniel Kehlmann giunge in Italia, tra i protagonisti del Salone del Libro di Torino con la Germania ospite d'onore, come confermato autore di best-seller. Anche il suo nuovo libro, che in tedesco si intitola F (che sta per Fatum, ma farebbe pensare anche a Falsum, visto che è l'inautenticità della vita dell'uomo contemporaneo il vero tema portante), è, come e più del romanzo precedente, un articolato, scorrevolissimo e godibilissimo conte philosophique.

Ruota intorno alla crisi del 2008, quando, prima del crollo, la fiducia nelle famose tre A aveva assunto il valore di assoluta certezza, di assenza totale di rischio per i prodotti finanziari. Per leggerezza, intelligenza nell'arte della divagazione, e insieme ricchezza e profondità filosofica, il romanzo ricorda il ritmo di capolavori settecenteschi quali Jacques il fatalista e il suo padrone di Diderot e il Tristram Shandy di Sterne, o il Candide di Voltaire, per il clima da teodicea che si respira ma soprattutto per le penetranti, e insieme esilaranti, considerazioni sul libero arbitrio. Solo che l'effetto comico, spesso irresistibile, qui non scaturisce dal refrain panglossiano secondo cui viviamo nel migliore dei mondi possibili, ma più direttamente dall'insistenza tragica con cui i personaggi ci ricordano che peggio di così l'umanità, dal punto di vista psicologico e morale, non potrebbe essere combinata.

Il titolo dell'edizione italiana, I fratelli Friedland, ricorda I fratelli Karamazov di Dostoevskij, e in particolare Ivan per la famosa affermazione secondo cui «se Dio non esiste, tutto è permesso». Ma Kehlmann ha un modo assai diverso di scavare nella psicologia dei personaggi. Poco interessato a sondare torbidi abissi, è più razionale e illuministico, è sottile e decisamente attuale nell'inseguirli in ogni singola azione quotidiana e nell'individuare che cosa davvero gli manca per essere felici (verrebbe da dire, in una parola, come ha suggerito Ian McEwan, l'amore) ma anche che cosa forse hanno in più rispetto alla norma: una maggiore consapevolezza della vanità o della fragilità delle credenze necessarie per vivere. Non solo quella in un Dio, perché a vacillare sono anche categorie come la bellezza o l'importanza e l'originalità delle opere d'arte, la realtà fisica della materia, i valori morali, e la stessa identità personale, di cui dubita schopenhauerianamente il padre dei tre fratelli, Arthur Friedland. Il sottotesto delle loro vicende è, per dirla con Leopardi, la «strage delle illusioni», e, ancor più sottilmente, una strage delle motivazioni. E ciò vale sia per i tre fratelli, i due gemelli omozigoti Eric e Ivan e il maggiore Martin, figli di due madri diverse, sia per il loro padre, pure affetto dal medesimo male di vivere, che decide di sparire per fare lo scrittore. Kehlmann lascia volutamente nel mistero la causa che ha spinto Arthur, l'unico che riesce in qualche modo a risolversi, a uscire dalla propria apatia per trovare la forza di scrivere e di diventare un autore di successo. Ma la sua filosofia non ha nulla di attraente né di consolatorio: «Si può vivere senza avere una vita. Senza farsi coinvolgere. Forse non ti rende felice, ma semplifica le cose».

Ivan, Eric e Martin brancolano nel buio. Il loro naufragio esistenziale si risolve nel trovare una posizione di comodo nel mondo. Martin, ossessionato dal cibo e dal cubo di Rubik, è diventato parroco e afferma candidamente che «la fede non è così importante», che non è possibile credere in Dio: la cosa davvero importante è che ci credano gli altri! Dal confessionale lo sentiamo proferire, poco prima dell'assoluzione, parole che riecheggiano quelle di Arthur: «Non sono il suo terapeuta. E neanche un suo amico. Guardi in faccia alla verità. Lei non sarà mai felice. Ma non ha importanza. Si può vivere anche così». E quando si rifugia nel piacere del cibo, anzi nel vizio, commenta: «Il primo morso è stato stupendo. La cioccolata che si spezza, il lieve solletico del cocco. Ma lo si avverte quasi subito: troppo grasso, troppo dolce. È così per quasi tutte le cose, Gesù non ci ha fatto caso, Buddha era più attento. Non c'è niente che soddisfi davvero. Tutto è inadeguato, eppure non riusciamo a liberarcene». Eric, gemello di Ivan, è un uomo d'affari. Investe capitali per conto di clienti milionari, ma il gioco si è fatto più grande di lui e, ora che sta perdendo tutto, inscena una farsa camuffando i conti per convincere i clienti che tutto va bene, in attesa che i derivati su cui ha scommesso si riprendano. Ironia della sorte, e colpo di genio tra i tanti della comicità di Kehlmann, Eric finirà per essere salvato proprio dalla catastrofe mondiale delle borse, che lo toglie dall'impiccio di dover rendere conto dei macroscopici errori da lui commessi in precedenza. Dunque crederà seriamente che ci sia stato un provvidenziale intervento divino in suo favore!

Ivan è invece un pittore, ed è come una seconda possibilità della vita di Eric (ma vale anche l'inverso: nel romanzo siamo spesso immersi in metafore probabilistiche che riguardano la meccanica quantistica, e i due gemelli sembrano essere i due stati del Gatto di Schrödinger). Sa dipingere e si impegna moltissimo per migliorare, ma riconosce tragicamente di essere un mediocre. Inoltre, sulla base di ragioni assai plausibili, non crede nel valore dell'arte. Vive dipingendo falsi di un pittore contemporaneo di cui gestisce con successo la fortuna prima e dopo la morte. L'impostura pare la vocazione più intima dei Friedland: recitare un ruolo posticcio nella grande farsa sociale, rinunciare a trovare la propria vocazione, il proprio destino. La loro fine sarà casuale e forse tragica come quelle ricostruite nel romanzo Famiglia di Arthur: «Fatum. La grande F. Ma il caso è potente, e d'improvviso ti assegna un destino che non era mai stato il tuo. Una specie di destino casuale».

Eppure c'è anche qualcosa di commovente nel racconto dei tragicomici fallimenti esistenziali dei tre fratelli. Per esempio, Ivan mette a nudo così la sua strana vocazione: «Penso spesso agli artisti del Medioevo. Non si firmavano, erano artigiani che facevano parte delle gilde, venivano risparmiati dalla malattia che si chiama ambizione. Si può ancora fare come loro, si può lavorare senza prendersi troppo sul serio – dipingere senza essere un pittore? L'anonimità non serve, è soltanto uno scaltro nascondiglio, solo una diversa forma di ambizione. Ma dipingere nel nome di un altro, questa è una possibilità che funziona. E, cosa di cui mi stupisco continuamente, mi rende felice». Le ragioni e le motivazioni, e persino una certa nobiltà d'animo, dunque non mancano. Sono però intrise e trasfigurate dalla dura realtà, dalla debolezza del volere e dalla fortuna. Alla fine un valore paradossalmente rimane impresso nella mente del lettore in tanta falsità e generale distruzione di certezze: la sincerità, accompagnata dalla volontà di evitare facili forme di suggestione e di autoinganno, come quelle messe in atto dall'ipnotizzatore da quattro soldi da cui i nostri eroi si erano recati un noioso pomeriggio qualsiasi, e da cui si diramano le loro storie. Daniel Kehlmann, I fratelli Friedland , traduzione di Claudio Groff, Feltrinelli, Milano, pagg. 270, € 17,00. «Il Caso, grande inventore» è il titolo dell'incontro con Kehlmann al Salone del Libro di Torino, sabato 16 maggio alle ore 14,30.

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