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Gusto e cucina, piccolo florilegio controcorrente

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Gusto e cucina, piccolo florilegio controcorrente

È un'impresa disperata tentare un inventario di libri, opuscoli, trattati dedicati in questi ultimi mesi alla gastronomia, a nuove prospettive in cucina, a considerazioni sugli alimenti e a cose simili. L'Expo di Milano ha favorito il fenomeno. Il quale ha ora raggiunto le librerie dopo aver conquistato non pochi spazi televisivi e in Rete. Si direbbe che sempre più persone siano ormai d'accordo con quanto scriveva Anthelme Brillat-Savarin nella “Fisiologia del gusto”: “La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella”. Eppure anche in questa letteratura dedicata alle cibarie, e alle mille considerazioni che le riguardano, c'è qualche voce dissonante, ironica, tendente a recare riflessioni controcorrente. Chi scrive desidera segnalare tre libri che si possono considerare delle deliziose irriverenze nei confronti di talune mode attuali.

Il primo testo è del postmoderno inglese Julian Barnes e si intitola “Il pedante in cucina” (Guido Tommasi Editore, pp. 156, euro 13). A chi si rivolge? La risposta è semplice: a chi desidera cucinare cibi saporiti e nutrienti senza avvelenare gli amici. Il soggetto in questione “segue pedissequamente le ricette altrui” e si pone quesiti, per esempio, sulla differenza tra sminuzzare e tritare. Si direbbe un'opera adatta per tutti gli esseri umani colti dallo sconforto dinanzi a un ricettario. Non sono casi isolati, soprattutto oggi.

Il secondo libro è di Marino Niola, “Homo dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari” (Il Mulino, pp. 152, euro 13). L'opera osserva “crudisti, sushisti, vegetariani, vegani, gluten free, no carb” eccetera, vale a dire quel mondo che cerca un modello alimentare oscillando tra etica e dietetica e che ha dato vita a una “nuova religione globale”. Al di là delle esigenze singole e delle eventuali intolleranze alimentari, stiamo vivendo un'epoca che nell'opera di Marino Niola è stata riassunta con una battuta dal sapore dostoevskiano: “Umiliati e obesi”. In questo saggio, oscillante tra vita e girovita, vi sono intuizioni dedicate alla fine del cibo e anche al fatto che, se siamo dinanzi a una nuova religione, dobbiamo anche tener presente scismi, eresie, sette, abiure, vie per la salvezza ma anche e soprattutto ricette di immortalità.

Il terzo titolo è di un pensatore vero, un filosofo degno di questo nome: Giorgio Agamben. Si intitola “Gusto” (Edizioni Quodlibet, pp. 72, euro 10). Sono pagine che vengono da lontano, o meglio nacquero per l'”Enciclopedia Einaudi” nel 1979; oggi ritrovano una straordinaria attualità. Agamben riflette appunto sul senso “più basso” che per Aristotele l'uomo condivide con gli altri animali (nell'”Etica nicomachea”) e che anche Hegel non apprezzava particolarmente (“Non si può degustare un'opera d'arte come tale”, scriveva nell'”Estetica”). Agamben ci ricorda che il gusto, in ultima analisi, andrebbe considerato come il sapere che non si sa e il piacere che non si gode. Certo, sono considerazioni che si scoprono dietro molte pacifiche apparenze. In un mondo convinto che questo senso sia anche l'organo della bellezza e di buona parte dei nostri godimenti.

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