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Non andate a Napoli

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RANE

Non andate a Napoli

All'inizio di aprile è uscito un libro nuovo di Antonio Pascale. Io l'ho saputo soltanto da poco, e questa cosa mi ha disturbato perché lo volevo sapere subito, e leggermelo nel momento stesso in cui è uscito, invece l'ho preso solo qualche giorno fa, di sera alle otto e venticinque, ci sono arrivato per un pelo, pochi minuti prima che la libreria chiudesse. Di sera ho letto solo le prime pagine, e poi di mattina un altro poco, però poco perché dovevo andare a lavorare. Comunque, già la mattina sapevo che parla di Napoli, e che è un libro a metà tra il saggio e la guida. L'inizio dice subito una cosa che spiazza: «Non ci andate, a Napoli». E infatti, siccome ero rimasto spiazzato, alla fine ho preso un permesso e al posto di lavorare mi sono letto tutto il libro.

«Non ci andate, a Napoli». Pascale non lo dice come espediente retorico, come usano fare le guide turistiche alternative, che alla fine invece poi sostengono che se non visiti da vicino quel posto allora ti stai perdendo l'ottava meraviglia del mondo. Lo dice proprio con sincerità. E poi aggiunge: «Siccome lo so che non mi darete retta, andateci, ma non scendeteci». Dice «scendeteci» perché per prima cosa dà questo consiglio: se andate a Napoli, limitatevi a salire sulla terrazza di Castel Sant'Elmo . È alta, ed è stata fatta apposta per poter controllare tutta la città, a 360 gradi, quindi si vede tutto, proprio tutto di Napoli, il bello e lo schifo, solo che da là sopra lo schifo non schifa e il bello invece resta bello, e così si riesce a farsi un'idea di dove il bello e lo schifo si toccano, e di come si toccano, e forse anche del perché si toccano. E niente, già questo mi ha colpito molto perché io, di Napoli, praticamente ho visto solo la terrazza di Castel Sant'Elmo.

IL DILEMMA DEL PAGNOTTIELLO
Sono andato a Napoli per una specie di concorso, ero giovane, avrò avuto 26 anni, e avevo mezza giornata per girare, e mi sono ricordato di una canzone di Pino Daniele che in una strofa diceva «da San Martino vedi tutta quanta la città» , e ho pensato vediamo dov'è San Martino. Allora l'ho chiesto con un sms a un siracusano che aveva abitato per tanti anni a Napoli, e lui mi ha risposto con un altro sms che diceva «piglia la funicolare e vai a Castel Sant'Elmo». Effettivamente, da Castel Sant'Elmo ho visto tutta quanta la città, come diceva Pino Daniele, e forse sì, è stato più bello che scendere a Napoli, anche se non lo posso sapere con certezza, perché alla fine a Napoli non ho avuto il tempo di scenderci.

Comunque, tornando verso la stazione dei treni, mi sono mangiato un pagnottiello , oppure pagnuttiello, con la u nel mezzo, ora non mi ricordo più bene come si dice, ma all'epoca ero molto orgoglioso di come riuscivo a riprodurre la pronuncia esatta di quella parola in napoletano (me l'aveva insegnato quello dell'sms), e quando mi sono rivolto alla signora che gestiva l'alimentari, ho provato a spacciarmi per un napoletano e dirlo come avevo imparato a dirlo, dandole pure del voi. Mi ricordo di come mi aveva guardato la signora prima di darmi il pagnottiello (oppure pagnuttiello), era stato un lungo sguardo indagatore: qualcosa non le tornava, io l'avevo detto benino, ma era l'unica cosa napoletana che sapevo dire decentemente, e la signora aveva forti sospetti che nient'altro in me ci fosse di napoletano, e quindi stava cercando di capire se ero un bluff o no, e allora mi aveva corretto, dicendomi non si chiama pagnottiello (oppure pagnuttiello) si chiama PANINO NAPOLETANO. Che poi questo pagnottiello (oppure pagnuttiello, oppure panino napoletano), era pesantissimo, un prodotto da forno in tutto simile al pane, ma con dentro un sacco di ciccioli di maiale e altre cose, credo uovo o frittata e vari altri ingredienti indigesti. Dopo che la signora me lo aveva dato, io non avevo detto più nulla, per non tradirmi e lasciarla col dubbio, e devo dire che la cosa, negli anni, continua a darmi una certa soddisfazione.

UN LUPO MANNARO ASSETATO DI SANGUE
Molto tempo dopo eravamo io, mio papà e mio fratello, in una tripla di un hotel a Napoli, un viaggio a tre che non facevamo da un sacco di tempo, e comunque l'ultima volta che l'avevamo fatto eravamo un papà con due bambini piccoli, o forse dei ragazzini adolescenti, e invece stavolta eravamo padre e figli adulti, e in questa occasione in cui abbiamo dormito dopo tanto tempo insieme in una sola stanza, io ho scoperto che, la notte, tutti e tre digrigniamo i denti in una maniera mostruosa, da film del terrore. Mi sono svegliato per il rumore nel cuore della notte, e solo dopo molti minuti di panico l'ho attribuito a mio padre e mio fratello, perché all'inizio ho pensato che non fosse un rumore umano, e forse dentro la stanza c'era un topo molto grosso, oppure un lupo mannaro assetato di sangue, e quando poi ho capito che erano mio padre e mio fratello ho pensato: ma cose da pazzi. E invece poi la mattina mi sono svegliato e mio fratello per prima cosa mi ha detto: «Ma lo sai che la notte digrigni i denti esattamente come fa papà? Avete fatto un casino, mi sono svegliato tutto spaventato per colpa vostra, e all'inizio ho pensato che dentro la stanza c'era un topo molto grosso, oppure un lupo mannaro assetato di sangue». Comunque, pure stavolta avevamo solo mezza giornata per vedere qualcosa, e allora io ho detto: «Andiamo a Castel Sant'Elmo». E i miei hanno detto: «E che è 'sto Castel Sant'Elmo? Andiamo a vedere il Maschio Angioino, scusa». E io ho detto: «No, il Maschio Angioino lo vediamo da sopra, tranquilli, non vi preoccupate, lasciate fare a me, che conosco bene il posto e so pure riprodurre l'accento della parola pagnottiello (oppure pagnuttiello)». E loro hanno detto: «E che è ‘sto pagnottiello (oppure pagnuttiello)?». E quando gliel'ho spiegato hanno detto che non volevano neanche sentirne parlare, al limite ci prendevamo una sfogliatella, ma giusto perché eravamo a Napoli, perché loro coi dolci non vanno tanto d'accordo.

«TENGO QUARANT'ANNI E NON LAVORO»
Poi ci siamo incamminati verso l'alto, con una serie di soste, una perché mio padre voleva assaggiare il caffè del professore e una perché mio fratello si voleva bere un caffè del nonno . Abbiamo preso pure stavolta la funicolare, e io e mio fratello abbiamo ascoltato un dialogo surreale dentro la cabina affollata di gente, con un tizio che se ne stava seduto comodo e una vecchietta con le caviglie gonfie che lo puntava in attesa che le cedesse il posto. In piedi c'era un signore assai distinto che a un certo punto si era impietosito per la signora anziana e aveva detto a quello seduto: «Perché non lasciate sedere la signora, che è anziana e ha le borse della spesa, avanti, fate il gentiluomo». E quello, con una flemma unica, gli aveva risposto: «La signora è anziana, ma io tengo quarant'anni». Al che io e mio fratello, che assistevamo al dialogo con molto interesse, lo abbiamo guardato come per dire sì, ma che c'entra che hai quarant'anni? Non sono tanti, quarant'anni. E lui ci ha guardato dritto negli occhi tutto serio e dopo una pausa ha aggiunto: «E non lavoro». E poi ha ripetuto di nuovo tutta la frase, stavolta guardando dritto negli occhi il signore assai distinto: «Io tengo quarant'anni e non lavoro». Ed è rimasto seduto, impassibile. E tutti quanti intorno hanno fatto una faccia come se avessero capito cosa intendesse dire, pure il signore assai distinto, e nessuno gli ha più detto niente, e io e mio fratello ci siamo sentiti esclusi da una logica che non comprendevamo, ma che a quanto pare dentro a quella funicolare era condivisa e condivisibile.

Poi siamo andati là sopra e mio padre ha detto: «Bello, facciamoci una foto», che è un frase che non gli sentivo dire da anni. E abbiamo chiesto a un tedesco di farci una foto. Mio fratello ha detto: va bene, ora però pigliamoci la sfogliatella. E io allora ho detto no, la sfogliatella la sanno tutti, cerchiamo almeno le coviglie . E i miei hanno detto e che sono le coviglie? Io invece, siccome consulto sempre libri e guide prima di partire, sapevo che le coviglie al caffè sono uguali allo schiumone che faceva il bar Viola quando eravamo piccoli, e che lo schiumone del bar Viola era uno dei pochi dolci che mangiavano sia mio papà che mio fratello, e oltretutto il bar Viola non fa più gli schiumoni da almeno trent'anni, perciò le coviglie al caffè sarebbero state come la madeleine per tutti noi (e peccato, veramente peccato, che mia madre non fosse venuta, perché io e lei invece mangeremmo solo dolci, dalla mattina alla sera). Solo che poi forse non era stagione, perché 'ste coviglie al caffè alla fine non le abbiamo trovate, e un barista ci ha pure detto: «Eh, ma che andate cercando le coviglie, pigliatevi un caffè del nonno e una sfogliatella». E mio fratello ha fatto una faccia contenta come per dirmi hai visto che avevo ragione io? E mio padre invece ha detto con decisione al barista: «Per me un caffè del professore e sono a posto».

VISTO DALL'ALTO
Comunque, per tornare al libro di Pascale, anni fa Roberto Alajmo ha fatto una cosa simile con Palermo, in un Contromano Laterza che si chiama Palermo è una cipolla, molto bello e dall'andamento simile. Tutti e due, per parlare della città, hanno scelto la seconda persona: Pascale usa il plurale voi (del resto siamo a Napoli, e se non usi il voi le signore che vendono pagnottielli, oppure pagnuttielli oppure panini napoletani, non ti ritengono credibile), Alajmo usa il singolare tu, ma entrambi si rivolgono a un figura a metà tra il lettore e il turista: uno di quelli tipo me, che prima di partire leggono libri sul posto che vogliono visitare, per poi magari fare il saputello con cose come, per esempio, le coviglie. Pascale gioca col demolirgli l'idea che ci si fa di Napoli leggendo guide e libri, e allo stesso tempo un poco gliela conferma, affrontando gli stereotipi e usandoli per descrivere la città secondo due diversi piani: quello della rappresentazione che questa città, nel corso dei secoli, un po' si è data e un po' ha subito (il confine è molto labile), e quello della sua realtà autentica che, proprio a causa del racconto che se ne fa di continuo, risulta ineffabile.

Leggendo, ho avuto la sensazione di trovarmi in Italia, nell'Italia intera, che vive tutta quanta immersa nel racconto, spesso metaforico e compiaciuto, di ciò che gli italiani e gli stranieri hanno detto e dicono dell'Italia, e che non riesce a uscire da se stessa e guardarsi per ciò che è davvero, scoraggiata dalla sua stessa complessità. Come dice Pascale, «la complessità è faticosa», per districarla bisogna fare misurazioni, mettersi lì a raffrontare dati, un lavoro rognoso, che porta spesso alla noia: un conto è dire con una bella metafora che Napoli è simile alla pietra di tufo con cui è costruita, cioè porosa, mobile, in continua mutazione, e prendersi un sacco di applausi e pure un sacco di voti, e un conto è calcolare l'ampiezza dei crateri e il quantitativo di cemento che serve per evitare che si formino voragini e smottamenti, e fare sbadigliare tutti. Questo libro invoglia a fare lo sforzo di non barattare la complessità per una bella metafora, e fa capire che certe volte la voglia di scendere bisogna tenersela, e rimanere a guardare le cose dall'alto di una terrazza, in modo che l'immagine non prevalga sempre sulla realtà, e che l'analisi non soccomba all'emozione. Quindi diciamo che è un libro di cui abbiamo bisogno tutti, pure quelli che non hanno in programma viaggi a Napoli.

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