«Quando mio padre è morto io facevo il nuotatore e andavo all’università, mio fratello aveva un anno meno di me. Sa chi mi ha aiutato?». «No, non lo so». «Mi hanno aiutato i miei operai, mi hanno preso per mano e mi hanno insegnato a fare tutto, io studiavo e lavoravo in fabbrica. Quegli operai sono stati la mia fortuna, mi hanno catapultato cinque anni avanti ai miei coetanei, mi hanno cambiato la vita.
Allora erano 28 i nostri dipendenti, oggi sono 3 mila, abbiamo dieci stabilimenti in casa e sei all’estero. L’eredità più grande che ho ricevuto da mio padre non sono i soldi, ma la moralità».
Questo dialogo tra me, nel ruolo di comparsa, e Marco Bonometti, il più burbero e imprevedibile degli industriali di razza bresciani, nel ruolo di attore protagonista, è avvenuto martedì scorso nella mia stanza in via Monte Rosa, tra un modellino della Ferrari consegnatomi con il trasporto con cui si regala qualcosa di sé, l’occhio indagatore che “fruga” tra quadri, libri e giornali, una parlata rotonda che fa allegria e trasmette familiarità.
Ho voglia di chiedergli se vede la ripresa, se percepisce qualcosa di concreto, ma non è possibile perché l’ingegnere Bonometti, laurea al Politecnico di Milano e Cavaliere del lavoro, a capo delle Officine Meccaniche Rezzatesi, è un fiume in piena e ha voglia di dire la sua: «In casa mia siamo fatti così, siamo gente semplice, oggi nelle mie fabbriche si lavora sette giorni su sette 365 giorni l’anno, dobbiamo fornire componenti motori a Pratola Serra e a Termoli, dobbiamo correre con i dischi dei freni dietro il boom di Melfi e della sua jeep, non è facile stare dietro a questo Marchionne, vedrete, vedrete che cosa succederà alla Ferrari, e poi c’è la General Motors e poi ci sono tutti gli altri». Ripeto la domanda: «Ingegnere Bonometti, allora la ripresa c’è per davvero?». Risposta secca: «Guardi, io so solo che se non ripartiamo adesso con petrolio, costo del denaro e euro ai minimi, non ripartiamo più, dobbiamo fare molto, tanti settori devono ancora riprendersi, ma almeno ora godiamoci i successi dell’auto italiana».
Si ferma, ti guarda fisso negli occhi, e butta lì: «Vuol sapere come ha fatto Marchionne? Glielo dico io, e le dirò una cosa che non dice nessuno: ha vinto perché ha messo l’aspetto industriale davanti a quello finanziario, è andato a vedere i problemi nei dettagli, i difetti della vettura, le condizioni per dare soddisfazione ai clienti, la piattaforma tecnologica globale, poi ha vinto perché ha una determinazione e una capacità di lavoro infinite, sa stimolare e coinvolgere le persone, soprattutto i giovani, mi piace perché è poca filosofia e molti fatti. Ha capito adesso perché sono sicuro che la Ferrari farà faville?». Rispondo: «Sì, ho capito, ho capito ingegnere Bonometti». Credo che si fermi, invece no. Eccolo, sempre sul punto: «Mi segua, per avere successo bisogna lavorare tanto e essere seri e trasparenti, la storia di Fiat Chrysler Automobiles ci insegna che il mondo non è l’Italia, ma l’Italia può recitare un ruolo importante nel mondo». Tutto bene, ma ripeto la domanda-tormentone: «Allora siamo in ripresa o no, ingegnere?». Alza gli occhi al cielo e scruta nel futuro: «Certo, che dobbiamo crederci, le do un dato: le aziende bresciane hanno speso 500 milioni in ricerca, innovazione, nuovi impianti, e ne spenderanno 2,7 miliardi fino al 2020. Le pare poco, per sperare?».
No, non mi sembra affatto poco, e questi numeri ci consegnano un’altra verità spesso colpevolmente sottaciuta: non è vero che piccole e medie imprese non investono in ricerca e innovazione, piuttosto è vero l’esatto contrario. Il cuore profondo della manifattura italiana non ha mai smesso di battere e questo dato è molto confortante, alimenta la speranza che non abbiamo mollato e ce la possiamo fare. Guardo l’ingegnere Bonometti, vedo e sento l’entusiasmo con cui parla dei suoi operai e della sua impresa, capisco che questi uomini qui non li può fermare nessuno, sono i capitani coraggiosi, quelli veri, delle “capitali” della manifattura italiana, il patrimonio nascosto più importante del Paese. Ora Bonometti è anche molto contento del jobs act («finalmente un contratto nell’interesse degli operai»), è contento per la decontribuzione sui neoassunti e per la riduzione della componente Irap del costo del lavoro, c’è una sola cosa che proprio non gli va giù, e lo capisci dal movimento della testa e dalla mimica delle braccia che accompagnano le parole: «L’Imu sugli impianti, sui mezzi di produzione, questa tassa sugli imbullonati è fuori dal mondo, solo in Italia si possono vedere cose così». Ascolto in silenzio, annuisco, ma non dico nulla e l’ingegnere Bonometti non molla la presa: «Scusi direttore, ha capito bene quello che sto dicendo? È come se venissi a casa sua e le mettessi una tassa sui termosifoni o sulla stufa, lei che cosa direbbe? Siamo pazzi, vero?». «Sì, ingegnere Bonometti, direi proprio così: siamo pazzi» rispondo. Dentro di me penso che a questa pazzia ci siamo abituati da troppo tempo, tolleriamo tutto, ci mostriamo rassegnati, e penso che non dovremmo più consentirlo.
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