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Lo zapping degli intellettuali

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Lo zapping degli intellettuali

L'11 gennaio 2015 la Francia, l'Europa e il mondo che si autoproclama orgogliosamente «libero» erano «Charlie». Dirigenti, intellettuali, editorialisti, cittadini promettevano, sui mezzi di informazione e nelle piazze, su Facebook e su Twitter, di resistere ai terroristi, di difendere il diritto alla blasfemia ereditato dall'Illuminismo e infine anche di definire e difendere gli ideali universalisti che dovrebbero essere alla base delle nostre società. Era quattro mesi fa. Un'eternità.

E poi? Un aereo si è schiantato sulle Alpi, in Inghilterra è nata una bambina, qua e là c'è stata qualche elezione, un terremoto ha devastato il Nepal e siamo passati ad altro. Solo i parenti delle vittime hanno continuato a piangere e qualche spirito ossessivo ha proseguito la sua riflessione post-trauma. L'11 aprile 2015, tre mesi esatti dopo le più grandi manifestazioni della storia francese, a una commemorazione in Place de la République, a Parigi, hanno preso parte appena duecento persone. Abbiamo cambiato canale, come siamo bravissimi a fare.

E, come succede sempre quando l'emozione e l'attenzione si attenuano, è cominciata la riscrittura della storia a opera dei falsari. La loro logica è sempre la stessa: condannare «con forza» gli attentati del 7 e 9 gennaio, deplorare la tragedia umana, sostenere la libertà di espressione e poi aggiungere, come se niente fosse, un «ma…» apparentemente insignificante e in realtà devastante. Tutte le abdicazioni delle élite occidentali incapaci di mantenere la stessa convinzione per più di quindici giorni di fila, tutte le nostre vigliaccherie individuali, tutte le nostre rinunce collettive si giocano in quel «ma».

Dagli scrittori americani che si ammantano di un antirazzismo da quattro soldi ai sociologi francesi che si lanciano in tentativi sfrenati di giustificare l'ingiustificabile, passando dal Papa stesso quando ha dichiarato che se un uomo insulta sua madre deve aspettarsi di ricevere un pugno, una folla di anime belle benintenzionate ha lasciato intendere che i disegnatori libertari di Charlie Hebdo non erano delle colombelle immacolate, che si trattava anzi di pericolosi «provocatori» (ormai siamo arrivati al punto che la satira non dovrebbe «provocare»?) se non addirittura di vergognosi «islamofobi». È giunto il momento dell'inversione e da New York a Parigi l'attenzione si è spostata lentamente dagli assassini alle loro vittime.

Un'attenzione distorta, oltretutto. Agli occhi dei duecento obiettori di coscienza che assumono pose da kamikaze per rifiutare all'associazione PEN il diritto di rendere omaggio ai morti di Charlie, o agli occhi di un Emmanuel Todd – il sociologo autore del libro Qui est Charlie?, che è sceso in guerra contro le marce «totalitarie» dell'11 gennaio – poco importa che il settimanale martire abbia dedicato negli ultimi dieci anni tre volte più copertine al Cristianesimo che all'Islam, e dieci volte più copertine alla destra e all'estrema destra che a tutte le religioni messe insieme. Poco importa che il giornale abbia sempre sostenuto le lotte degli immigrati, legali o clandestini, per i loro diritti. Poco importa che Charb, Tignous, Wolinski, Honoré e Cabu siano stati per tutta la vita fervidi apologeti dei meticciati e delle mescolanze di cui si compongono le nostre società. No, quello che importa è seminare il dubbio o addirittura infamare le vittime, e spiegare in questo modo che alla fin fine a Parigi, in gennaio, non è successo nulla di fondamentale. Un'ennesima provocazione occidentale punita da credenti un tantinello suscettibili e alquanto intransigenti riguardo all'onore del loro Profeta.
Peccato che quello che «provoca» i fondamentalisti di ogni risma sia l'essenza stessa del nostro stare al mondo: le nostre libertà. Per i jihadisti la nostra colpa non è tanto il nostro neocolonialismo reale o presunto, o il nostro scandaloso egoismo di fronte ai migranti che muoiono nel Mediterraneo o il nostro spudorato sfruttamento dei suoli africani, la nostra colpa sono i Lumi, che hanno fatto la nostra grandezza e hanno definito il nostro rapporto con l'esistenza. Non c'è niente di illogico nel fatto che integralisti convinti della necessità di tornare all'epoca dei primi Califfi aborriscano il lascito volterriano dell'Europa contemporanea. Quello che per contro rappresenta un problema è la nostra incapacità di pensare, dire, far vivere e difendere quel lascito e quella visione del mondo.
Simbolicamente, poche settimane dopo aver promesso di tornare ai principi della Repubblica, il governo francese – con una tempestività tipica dei socialisti d'Oltralpe – ha partorito un progetto di riforma che elimina l'obbligatorietà dell'insegnamento dell'Illuminismo nelle scuole superiori. Dei giovani francesi, passati dalla scuola di Jules Ferry (il ministro che a fine Ottocento legiferò a favore della laicità della scuola), si procurano dei kalashnikov per trucidare dei giornalisti il cui solo crimine è aver disegnato un uomo morto tredici secoli fa, e un comitato d'esperti decide che Voltaire e Diderot non sono più necessari… Un epifenomeno, direte voi? Tutt'altro: un bug rivelatore del male profondo che corrode le élite europee.
Questo male ha un nome: afasia, incapacità di dire. E soprattutto di dirsi. L'Europa non ha più un'élite capace di pensare ed esprimere chi siamo e verso cosa tendiamo, un orizzonte comune. Se non avessimo nemici, l'afasia e l'abulia non sarebbero un problema così grande. Solo che dei nemici li abbiamo. E sono anche parecchi. I nostri principi e i nostri modi di vivere non vanno a genio a tutti. Sono una costruzione sociale, politica, ideologica che non sopravvivrebbe se noi cessassimo di dirla e di difenderla. Ecco che cosa ci ricorda quel gennaio e che cosa cerchiamo a tutti i costi di dimenticare.
Il tempo incalza, perché la natura ha orrore del vuoto. E se i pensatori, gli attori politici, i cittadini progressisti, europeisti, aperti, non troveranno né le parole né i progetti necessari nei mesi e negli anni a venire, un altro discorso rimpiazzerà i loro silenzi e la loro apatia. Un altro discorso su quello che siamo e su quello che ci definisce, un discorso di rigetto dell'altro che è l'antitesi dei nostri Lumi divenuti facoltativi e inudibili. Questo discorso viene proclamato dall'estrema destra che avanza ovunque nelle urne e soprattutto nelle teste. Da Mosca a Parigi, passando per Roma e Budapest, i fautori di un ripiego identitario suicida lottano per conquistare l'egemonia culturale. La loro arma migliore è proprio la nostra afasia.
Se vogliamo evitare i Putin, i Le Pen, i Salvini, allora salviamo Voltaire e Charlie dai nostri rinnegamenti e dall'oceano di oblio in cui annegano. Per una volta, non cambiamo canale.

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