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Nell'autunno del 2014 la Fao ha stimato che 805 milioni di persone stavano morendo di fame. Martín Capárros è uno che non si fida, per cui ha deciso di andare a contarle. Ha girato per l'Africa facendo domande a chi incontrava davanti alle capanne di fango e di paglia, chiedendo quanto avevano mangiato quel giorno, quanto avrebbero mangiato quella settimana e come avrebbero fatto a resistere per un altro anno. Chiedendosi: «Come cazzo riusciamo a vivere sapendo che succedono queste cose?», cito alla lettera. Poi ha preso le risposte, le ha mescolate al racconto dei suoi viaggi e ai dati che è riuscito a raccogliere e verificare e ne ha scritto La fame (Einaudi, traduzione di Sara Cavarero, Federica Niola ed Elena Rolla). Con rabbia e consapevolezza.

Argentino, giornalista dall'età di sedici anni, esule in Europa dopo il colpo di Stato di Videla e di nuovo in patria negli anni Ottanta, Capárros ha la fama di calarsi in ciò che lo incuriosisce. Se poi oltre la curiosità ci si mette la frustrazione, allora può darsi che ne esca un lavoro di una potenza straordinaria. Qualche anno fa ha deciso di andare a vederla da vicino, la fame. Ha deciso che non si sarebbe più accontentato di sapere che esisteva, ma che l'avrebbe toccata con mano, che avrebbe dato a quegli occhi tristi e a quelle pance gonfie che si vedono sui cartelloni, due cose: un nome e una voce per ciascuno di loro.

Senza l'umanizzazione della parola, i numeri sono soltanto numeri e si può facilmente scamparvi illudendosi di aver aggiustato le statistiche con una donazione. Quando per ognuno degli ottomila bambini che muoiono ogni giorno abbiamo una testimonianza, di più, uno scambio di opinioni, allora diventa molto difficile rimanere indifferenti. Quello di Capárros è un viaggio senza intermediari, una finestra aperta non soltanto su cause e conseguenze di una condizione, ma sulle sue ragioni. Raccontate da chi si trova costretto a viverla.

L'espressione “fame nel mondo” è penetrata talmente in profondità nel pensiero comune, che non fa più effetto. È con questa premessa e con la determinazione di chi non ha più voglia di girarci attorno che Capárros comincia a scrivere. Il risultato è un libro divulgativo e umano, quanto è umana la disperazione. Non va alla ricerca delle cause di un'ingiustizia, non prova a ridare equilibrio a un mondo iniquo, non fa retorica. Scrive quello che vede e reagisce da uomo: «Come cazzo facciamo?».

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