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Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2015 alle ore 08:13.
Prendere parte alla realtà, interpretare la “situazione” che si vive nel mondo, ricercarne il senso nella continua lotta irrisolvibile fra senso e non senso è quanto accade in un romanzo un po’ nebuloso dell’esordiente Walsh. La scrittrice si avvale dello pseudonimo per scrivere di una storia torbida a metà fra la finzione e la cronaca poliziesca e per raccontare un caso limite di violenza subita in un percorso di psicoterapia. Gli avvenimenti dovrebbero risultare alleggeriti da una scrittura limata, a tratti priva di eleganza, ma è proprio in quella dimensione così scarna e priva di liricità che traspare una forma artistica che ci riporta ad alcune considerazioni di Merleau Ponty, quando asseriva che molti libri contemporanei hanno delle caratteristiche di rivolta della vita immediata contro la ragione, perché la più alta ragione – anche quella nascosta nel senso di un’opera d’arte – confina con la non ragione. Il libro della Walsh insiste, forse eccessivamente, sul fallimento della psicanalisi, che spesso è soltanto il fallimento di un singolo e non della professione, ma lo fa con razionalità tenendo conto degli effetti di un argomento così duro.
Alla base della struttura narrativa si può rintracciare un espediente interessante quando applicato alla narrativa: il dilemma del prigioniero, come indicato dal matematico John Nash, e accostato alla psicologia. Quante possibilità decisionali ha la ragazza di fronte alla violenza che ha dovuto ricevere? Tacere o denunciare? Quante possibilità ha la ragazza, dopo la confessione, che l’altra parte, lo psicanalista abile con le diagnosi, non trasformi la situazione traslando la condizione da vittima (oggetto di abuso) a carnefice (soggetto/stalker)? Anche qui il dilemma si gioca tutto sul denunciare o tacere prevedendo, con un certo equilibrio, la reazione dell’altro “prigioniero” della storia. Ma la vicenda è più intricata delle possibilità matematiche, perché qui ci sono due prigionieri asimmetrici nelle loro verità e non sono in gioco solo due prigionieri di una storia squallida, ma c’è anche la duplicità apparenza-realtà (chi dice la verità?) e, soprattutto, alla fine della storia, la maglia si restringe nuovamente con l’ingresso in campo della burocrazia (un fantomatico Ordine dei medici, un commissione etica) e le regole cambiano: chi confessa è penalizzato perché l’altro che tace, in questo caso, si rivela non l’amico prigioniero, bensì il nemico e forse non solo ha taciuto, ma ha anche compromesso il racconto con la menzogna.
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Giorgia Walsh, Psicoanalisi in rosso , Sedizioni, Diego Dejaco editore, Mergozzo, pagg. 120, € 16,00