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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2015 alle ore 08:14.

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La tirannia della distanza: il titolo di questo libro di Geoffrey Blainey sulla storia australiana è diventato in quel Paese una frase quasi proverbiale. L’Australia è distante, si sa (o, in una visione meno “emisfero-nord-centrica”, sono gli altri Paesi a essere distanti dall’Australia). Ma in che senso la “tirannia della distanza” è diversa da quella che separa l’Europa dal Cile o dalla Corea?

Un primo senso è quello, banale, geografico. L’Australia è davvero distante, è agli antipodi, cioè alla maggiore distanza possibile rispetto all’Europa (per la precisione, gli antipodi rispetto all’Italia si situerebbero più dalle parti della Nuova Zelanda). Ma il titolo di Blainey – uno dei più controversi e acuti storici dell’Australia – si riferisce a un’altra distanza: una distanza culturale che ha plasmato il carattere di una nazione giovane e unica.

Come ha osservato Bryce Courtenay – un romanziere sudafricano che fece dell’Australia il suo Paese di adozione – «Mai prima d’ora nella storia dell’uomo una nuova “cultura/nazione” si è creata e ha fiorito così rapidamente (200 anni) e così lontano dal suo punto di origine». Scoperta dal capitano Cook nel 1770 (“scoperta” nel senso in cui Colombo scoperse l’America – altri avevano toccato prima d’allora quelle coste antipodali, certamente gli olandesi e forse anche i portoghesi, per non parlare degli aborigeni, che vi arrivarono almeno 40mila anni fa) l’Australia fu rapidamente colonizzata nell’Ottocento, e divenne un Paese indipendente nel 1901 (quarant’anni dopo l’Italia – due Paesi “giovani”!).

La “diversità” australiana cominciò nei giorni in cui il capitano Cook, accompagnato dal naturalista Sir Joseph Banks, mise piede sul suolo australiano. La fauna e la flora erano così diverse da quelle conosciute (e in molti casi continuano a essere uniche al continente australiano) che ci fu chi perfino teorizzò che l’Australia fosse un pezzo di un altro pianeta venuto a incastonarsi nell’emisfero Sud. Quando, nel 1798, una descrizione dell’ornitorinco raggiunse Londra, insieme a una pelle impagliata, i naturalisti britannici pensarono che fosse uno scherzo, messo assieme da qualche tassidermista asiatico: un mammifero (ordine monotremi) semiacquatico, con coda di castoro e becco di anatra, che depone uova e allatta i suoi piccoli...

Ancora adesso natura e cultura sono strettamente collegate. Il passato dell’Australia non è stato cesellato dalle gesta di uomini i cui nomi gettassero una luce sui loro tempi. L’Australia non potrebbe riconoscersi nella vanagloriosa iscrizione scolpita sulla cornice del Palazzo della civiltà del lavoro a Roma («Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di...»). In Australia l’Arte, con la A maiuscola, non ha lasciato tracce, ma la Natura è tutto. Le parti più belle dell’Italia si vantano di una partnership unica al mondo fra uomo e natura. In Australia le parti più belle si distinguono per l’assenza di ogni segno dell’uomo. Si torna allo stato vergine, come in quelle foreste di alberi-felci, pieni di piante che sono le stesse della preistoria.

L’identità australiana si è forgiata in questo ambiente primigenio, la cui unicità e la cui lontananza dalla culla delle civiltà (sia europea che asiatica) spiega come la “tirannia della distanza” non sia solo una questione di chilometri. È anche un “diverso” che rende gli australiani allo stesso tempo orgogliosi e incerti: consci di abitare una terra inaudita ma anche insicuri di come gli altri li vedono, e segnati da uno sradicamento fra le terre di origine e una patria (troppo) nuova.

Ma questa ambivalenza non ha impedito all’Australia di forgiare un suo modo di essere e di creare: basti pensare alle ballate e alle poesie di Banjo Paterson o agli stupendi romanzi di Patrick White, l’unico premio Nobel australiano della letteratura, dove la luce – quella peculiare luce australiana che deriva dai bassi orizzonti (l’Australia è il Nuovissimo continente ma geologicamente è il più vecchio e il più piatto) – sembra salire dalle pagine dei romanzi, quasi a ferire gli occhi del lettore (vedasi Voss e The Tree of Man). Il connubio australiano “cultura-natura” è anche più vivido nella pittura. Se si guarda un paesaggio di un pittore europeo o americano, è difficile capire in quale Paese si situa. Ma un quadro paesaggistico di un pittore australiano non lascia dubbi: quella terra, quegli alberi, quella luminescenza possono essere solo d’Australia.

C’è un’altra fattezza dell’identità australiana che dipende dai modi della colonizzazione. Come si sa, i primi coloni furono i forzati, trasportati dall’Inghilterra in questo penitenziario a cielo aperto (una affascinante testimonianza di queste insolite prigioni si ritrova in Tasmania, a Port Arthur). Questi furono i “primi australiani” (una definizione che porta poco rispetto agli aborigeni). Ma gli australiani fanno di necessità virtù: se in Italia una famiglia ha fra gli antenati un conte o un marchese, mette in bella mostra il suo ritratto nel salotto; in Australia funziona uno snobismo inverso: se fra gli antenati c’è uno dei forzati di allora, la famiglia afferma con orgoglio quella discendenza, che diventa motivo di onore e di autenticità!

Sono queste origini che spiegano anche un altro carattere australiano: l’egualitarismo spinto, che deriva dall’assenza di classi e di feudi e da una cultura di pionieri, quali per forza dovevano essere all’inizio. Per questo gli australiani non amano gli “alti papaveri” e diffidano delle élite. Se prendete un taxi in Australia, è normale che il passeggero si sieda accanto al guidatore; altrimenti si sottolineerebbe un rapporto di sudditanza fra tassista e utente.

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