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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2015 alle ore 08:14.

Leggo e sfoglio un bel volume a cura di Anna Dolfi, Non finito, opera interrotta e modernità, da poco uscito presso la Firenze University Press (pagg. 660, € 21,90) e nonostante i molti interessanti saggi che contiene, ho subito l’impressione che manchi qualcosa. Non c’è libro, non c’è convegno di studi, non c’è trattato teorico che non presenti qualche lacuna. Eppure nei precedenti, ponderosi volumi curati dalla Dolfi, in particolare La saggistica degli scrittori (2012), e Il racconto e il romanzo filosofico della modernità (2013), seppure mancasse qualcosa, i suggerimenti, le indicazioni fondamentali c’erano e il perimetro tracciato intorno al tema non lasciava fuori, mi sembra, niente di essenziale.

Nel caso del Non finito, invece, non so se per difetto di teoria (che cos’è il non-finito?) o per ragioni pratiche (gli studiosi invitati hanno tralasciato ciò che esulava dai loro interessi) mancano proprio due generi letterari o tipi di scrittura che per autodefinizione e per programma sfuggono all’idea di opera compiuta: si tratta del saggio e del diario. A queste due forme la modernità, nelle sue varie fasi, da Montaigne a Leopardi a Kafka, deve moltissimo. Le idee di Friedrich Schlegel non si sono mai esaurite, sono rimaste attuali nel corso di due secoli: «Altri generi sono finiti e possono essere compiutamente analizzati. La poesia romantica è ancora in divenire; anzi, questa è la sua vera essenza: che può soltanto divenire, mai essere. Non può venire esaurita da nessuna teoria».

I generi letterari erano quindi destinati a combinarsi o mescolarsi. Senza dubbio anche il romanzo e la lirica moderna devono qualcosa, o molto, alla saggistica e alla diaristica, cioè al pensiero soggettivamente in atto e all’autoanalisi estemporanea quotidiana. La poesia di Leopardi è spesso impostata su tonalità diaristiche o saggistiche, la narrativa epica di Tolstoj e quella allegorica di Kafka hanno una filigrana diaristica, Proust, Svevo e Musil sono narratori saggisti, la poesia di Machado, Saba, Benn, Auden è strettamente intrecciata al loro filosofare diaristico e aforistico.

Oltre che mancare il diario (fisiologicamente non-finito) e il saggio (sperimentalmente aperto), nel volume non mi sembra che sia dedicata un’attenzione sufficiente neppure alla poesia moderna e alle sue molte e ben note innovazioni strutturali. Nonostante alcune potenti controspinte in direzione contraria (che culminano nell’elusivo manierismo neoclassico di Valéry), la poesia moderna si presenta fin dall’inizio come un’impresa equilibristica e rischiosa in cui possono alternarsi inaspettatamente calcolo e improvvisazione, virtuosismo tecnico e azzardo. L’idea di incompiutezza funziona in genere come idea-guida (in Whitman, in Rimbaud) e conduce più alla non-opera che all’opera, più all’esplorazione che alla perfezione. La lunga tradizione classicistica dell’opera compiuta si interrompe e naufraga, da Novalis e Coleridge in poi, arrivando a Eliot e al surrealismo. L’enumerazione caotica (analizzata da Spitzer) e la scrittura automatica (prescritta da Breton) sono due tecniche del non-finito. Il linguaggio della poesia moderna, fino a Ponge e Michaux e alle stanche repliche degli anni cinquanta e sessanta, è il prodotto di una scelta del discontinuo o dell’ininterrotto o dell’incompiuto (dell’abbozzo), nonché dell’accostamento lacunoso di materiali eterogenei non lavorati o semilavorati, con l’applicazione del collage e del montaggio alla materia verbale. Perfino l’uso e l’abuso del verso libero non è che una continua allusione al non-finito: si scrivono versi che non sono ancora versi, versi incompiuti, versi che non sopportano di essere immediatamente riconosciuti come forme definitive.

In questa prospettiva non è mai stata messa abbastanza in risalto, se non sbaglio, l’affermazione di Leopardi, che in una lettera del giugno 1836 a Charles Lebreton scrive così «malgré le titre magnifique d’opere que mon libraire a cru devoir donner à son recueil, je n’ai jamais fait d’ouvrage, j’ai fait seulement des essais en comptant toujours préluder, mais ma carrière n’est pas allée plus loin» [nonostante il magnifico titolo di opere che il mio editore ha creduto di dover dare alla raccolta, io non ho mai fatto opere, ho fatto soltanto saggi, ritenendo sempre di preludere, ma la mia carriera non è andata oltre]. Nel secondo numero della rivista «Diario», portata agli esperimenti saggistici, Piergiorgio Bellocchio scelse non a caso queste parole di Leopardi come programma.

Il saggio informale e soggettivo, che si oppone al trattato sistematico, è stato tipico di autori antihegeliani: Kierkegaard ha scelto di fare filosofia scrivendo un diario e Nietzsche ha prediletto (leopardianamente) il saggio aforistico. Se il non-finito deve essere messo in rapporto con la modernità, questi dati ovvi non vanno trascurati.

Quanto alla recente letteratura italiana, la poetica dello sperimentalismo, comunque la si giudichi, ha prodotto sia la magmatica, improvvisata poesia di appunti tra diario e saggio di Pasolini, sia quell’incompreso capolavoro del non-finito che è Corporale di Volponi. Ma anche nella critica letteraria il non-finito ha avuto un esito esemplare. Cesare Garboli non è mai riuscito a portare a termine, a compimento, a esaurimento i suoi decennali, ossessivi lavori di scavo dedicati a Molière e a Pascoli. Prefazioni, note a margine, indagini biografiche, traduzioni, analisi testuali, ipotesi psicologiche, interpretazioni sociologiche: se Garboli ha tanto insistito nel rifiuto di definirsi sia un critico letterario che uno scrittore, è perché sapeva di non sapere affatto che cosa gli succedeva quando leggeva un autore e cercava di capirlo scrivendo. Nei suoi saggi il non-finito esprime l’istinto di evitare il linguaggio corrente della critica, nel tentativo di mantenerla in vita inventandola di nuovo.

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