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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2015 alle ore 08:14.

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Agli inizi della grammatica generativa moderna, circa sessant’anni fa, sembrava che per rendere conto della varietà dei dati linguistici occorressero ipotesi complesse e intricate. Sembrava inoltre che le lingue potessero differire in quasi tutti i modi che si possono immaginare, anche se si capiva che forse non poteva essere vero, altrimenti un bambino non potrebbe apprendere nessuna lingua. Può valere la pena notare che in campo biologico c’erano teorie abbastanza simili: a molti biologi sembrava che la varietà degli organismi fosse pressoché infinita. Il lavoro successivo ha mostrato che la varietà degli organismi ha in realtà forti vincoli, tanto forti che è ormai possibile ipotizzare che potrebbe persino esistere un «genoma universale» per i metazoi: quindi, da un certo punto di vista adeguatamente astratto, un singolo animale multicellulare.

Qualcosa di simile è accaduto nello studio del linguaggio, almeno secondo me. Nel corso degli anni è stato dimostrato, in modo convincente credo, che molta della complessità può essere eliminata e che la varietà delle lingue ha vincoli assai più stretti di quanto non sembri. In anni recenti l’indagine su questi argomenti è stata denominata «programma minimalista», un programma che tuttavia non costituisce un brusco allontanamento da ciò che lo aveva preceduto. Si tratta piuttosto di una continuazione senza scarti dello sforzo di dimostrare che, se possiamo raggiungere un’appropriata comprensione del linguaggio, si vedrà che quest’ultimo è fondamentalmente semplice, e che segue le regole più semplici, come molti altri aspetti della natura che sembrano disperatamente complessi e variati quando noi non li capiamo.

Il programma minimalista ha introdotto alcune nuove suggestioni di ricerca. Una è di prendere come punto di partenza la tesi minimalista forte (Tmf): in primo luogo, postulare la teoria più semplice del linguaggio-I, poi chiedersi se le numerose deviazioni evidenti possono essere reinterpretate in una diversa prospettiva, per dimostrare che ricadono in un contesto di principi semplice. Questo penso sia stato un programma di ricerca produttivo. E anche se - inutile a dirsi - molto resta da fare, la Tmf sembra molto più plausibile di quanto non sembrasse molti anni fa. Vi sono anche implicazioni interessanti che riguardano la natura del linguaggio e la sua acquisizione.

Volgiamoci dunque all’acquisizione del linguaggio. Come lo sviluppo di qualunque sistema organico, essa coinvolge parecchi fattori: a) dati esterni, b) doti genetiche, c) principi più generali. Il fattore genetico include elementi specifici del linguaggio (detti grammatica universale, GU, adattando un concetto tradizionale a un contesto nuovo), insieme alla base genetica per altri sistemi cognitivi che possono entrare nell’acquisizione del linguaggio e per i vincoli imposti dalla struttura del cervello, su cui oggi non sappiamo abbastanza perché possa esserci d’aiuto. L’esistenza di questi fattori è considerata inconfutabile, con una singola eccezione, quella di GU. Ma deve trattarsi di un malinteso. È evidente che deve esistere una base genetica per il fatto che un neonato umano, ma nessun altro organismo, sbroglia i dati di pertinenza linguistica all’istante e senza sforzo dall’ambiente, e raggiunge rapidamente una ricca competenza linguistica, un’impresa di gran lunga al di là di altri organismi, anche nei suoi aspetti elementari. E tuttavia questa non è che la più elementare delle conclusioni che derivano dal negare l’esistenza di GU. In genere vengono sostenuti altri approcci: la memoria astronomica, l’analisi statistica, la cosiddetta teoria della mente o la cultura in un qualche senso oscuro, tutti approcci che però crollano subito alla prova dell’analisi.

Sembra ben provato che il linguaggio «rappresenta una facoltà mentale con un dominio specifico, una facoltà che si basa su vincoli e principi organizzativi strutturali in larga parte non condivisi da altre facoltà mentali, e che nelle sue procedure computazionali è automatica e inderogabile» - per citare Susan Curtiss, che ha fatto un lavoro pionieristico nel fissare tali conclusioni sulla base di dissociazioni e altre prove.

Si noti che a essere automatiche e inderogabili sono le procedure computazionali. L’uso normale del linguaggio si estende ben al di là di questi limiti. Oggi non c’è ragione di mettere in dubbio l’intuizione fondamentale di Cartesio secondo la quale l’uso del linguaggio ha carattere creativo: è tipicamente innovativo, senza limiti, appropriato alle circostanze ma non causato da esse - né, a quanto si sa, da stati interni - e può produrre pensieri in altri individui tali che questi ultimi riconoscono che avrebbero potuto esprimerli loro stessi. Dovremmo tenere a mente anche che l’aforisma di Wilhelm von Humboldt secondo il quale il linguaggio comporta un uso infinito di mezzi finiti si riferisce all’uso. Si sono fatti grandi progressi nella conoscenza dei mezzi finiti che rendono possibile l’uso infinito, ma quest’ultimo resta in larga parte un mistero. Il rifiuto di GU è basato a volte sulla confusione fra GU - la base genetica del linguaggio-I - e universali linguistici, come quelli della importantissima lista compilata da Joseph Greenberg. Questi ultimi sono delle generalizzazioni, che vuol dire che possono ben esserci delle eccezioni. GU non ha eccezioni, tranne che dai margini.

Il carattere essenzialmente ineccepibile di GU non è privo di significato. Una ragione è che questo ci dice qualcosa almeno sull’evoluzione del linguaggio, ed è ben poco aggiungere che si tratta di qualcosa di una certa sostanza. Ci dice che fondamentalmente non c’è stata alcuna evoluzione della capacità di linguaggio almeno negli ultimi 50mila anni o più, da quando si ipotizza che i nostri antenati abbiano lasciato l’Africa. Così i neonati delle tribù amazzoniche apprendono facilmente il portoghese e, se portati a Boston o a Roma, parlerebbero i dialetti locali in modo indistinguibile dai nativi; e viceversa. Ne consegue che la loro capacità di linguaggio - GU - non è cambiata. L’osservazione generalizza, senza alcun limite a quanto si sa. Ciò potrebbe sorprendere quanti credono - spesso, a quanto pare, per una mancata comprensione della teoria moderna dell’evoluzione - che il linguaggio deve essersi evoluto a piccoli passi in un lungo arco di tempo. La teoria moderna, tuttavia, non pone barriere all’ipotesi - molto più plausibile, dal mio punto di vista - che le proprietà essenziali della facoltà umana del linguaggio sono emerse abbastanza all’improvviso (rispetto al tempo evolutivo) grazie a un ricablaggio probabilmente leggero del cervello. Com’è ovvio, c’è il costante mutamento storico, una cosa molto diversa.

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