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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2015 alle ore 08:14.

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Il nome di Legba, colui che apre il cammino, probabilmente all’Académie française non era mai risuonato. Ringraziando il dio vudù come una musa dell’oltretomba, Dany Laferrière ha fatto lo scorso 28 maggio il suo trionfale ingresso tra gli «immortali». Così sono chiamati i 40 membri della compassata istituzione - fondata nel 1635 dal cardinale Richelieu affinché vegliasse sulla lingua francese - che da tre decenni ha aperto (con parsimonia) le porte agli scrittori francofoni. Primo haitiano, primo canadese, Laferrière è il secondo nero a farne parte, dopo il senegalese Léopold Sédar Senghor, poeta, scrittore e uomo di stato.

E se l’Académie ha forse visto nel romanziere nato a Port-au-Prince 62 anni fa la possibilità di levarsi di dosso l’immagine di roccaforte conservatrice e cattolica fossilizzata ai margini della storia, questi sicuramente non li ha delusi: di Legba, la divinità che permette ai mortali di passare dal mondo visibile a quello invisibile - e che dunque è il dio degli scrittori - portava il vevé, disegno a lui associato, impresso sulla spada che, assieme alla marsina ricamata con foglie d’ulivo, è uno dei simboli tradizionali dell’elitaria accademia. Dopo, già nelle primissime parole del suo lungo discorso volto a celebrare lo scrittore d’origine argentina Hector Bianciotti di cui ha preso la sedia, la numero due prima appartenuta a Montesquieu e poi a Alexandre Dumas figlio, non ha mancato di sottolineare «l’orribile guerra coloniale con cui Haiti ha messo alla porta la Francia schiavista dell’epoca, conservandone però la lingua». «Questi guerrieri - ha poi sottolineato conciliante - non avevano nulla contro una lingua che a volte parlava di rivoluzione, spesso di libertà». Laferrière, nell’orazione cui ha assistito anche il presidente francese François Hollande, s’immagina d’incontrare il defunto Bianciotti proprio grazie all’intermediazione di Legba, che compare spesso nei suoi romanzi.

Figlio di un politico costretto all’esilio, cresciuto dalla nonna lontano dalla pericolosa Port-au-Prince dove la madre viveva quasi in ostaggio del dittatore dell’epoca, François Duvalier, detto Papa Doc, Laferrière ha a sua volta lasciato il suo paese a 23 anni, poche ore dopo che è stato trovato con la testa fracassata il collega giornalista con cui indagava su personaggi legati al nuovo regime guidato dal figlio del despota precedente. La sua storia e l’esordio nel 1985 con Come fare l’amore con un negro senza fare fatica non devono però far pensare che Laferrière sia oggi un attivista, un ribelle, un provocatore. I suoi romanzi non sono pamphlet politici ma soprattutto autobiografie dolorose e ironiche di chi, dopo due decenni di esilio a Montréal, torna al suo paese per rendersi conto che non appartiene più a nessun luogo. «Voi non siete nel militantismo - ha detto l’”immortale” di origine libanese Amin Maalouf, incaricato del discorso di risposta a quello di Laferrière -, ma nella seduzione. Quando la vostra penna scrive “lotta”, “combattimento”, “attacco”, “strategia”, “conquista”, sono sempre delle metafore sensuali. E voi, del resto, ne gioite. Uno dei vostri romanzi si intitola Quella granata nella mano del giovane negro è un’arma o un frutto? Trattandosi di voi, sappiamo con certezza che è un frutto. E ne siamo felici. Tuttavia, la seduzione non è necessariamente priva di un intento politico. Non siete stato proprio voi a osservare, a proposito di vostro padre, che un rivoluzionario è prima di tutto un seduttore?» .

Quando Laferrière ha fatto ritorno a Port-au-Prince per la prima volta, nel 1996, erano passati vent’anni. Lo racconta in Paese senza cappello (così ad Haiti viene chiamata l’aldilà, perché nessuno è mai stato sepolto con un copricapo) un’indagine sui morti e sui presunti sopravvissuti, in libreria da venerdì prossimo. «Sono a casa su questo sasso assolato cui si aggrappano più di sette milioni di uomini, donne e bambini affamati, stretti fra il Mar dei Caraibi e la Repubblica Dominicana. (...) Ancora una volta cerco di raccontare il mio rapporto con questo paese terribile, che cosa è diventato, che cosa siamo diventati tutti noi, cerco di raccontare questo movimento continuo che può anche trarre in inganno e dare l’illusione di un’inquietante immobilità». In questa isola «dove la notte esiste. Una notte misteriosa (...). La notte nera. Notte mistica. E solo di giorno si può parlare di quel che è successo la notte» il dittatore di turno ha minacciato di scatenare contro gli americani un esercito di zombie. Laferrière - dapprima esterrefatto dalla capacità di resistere dei suoi abitanti - si rende conto che tutti sono convinti che la loro terra sia in mano ai bizango, esseri senza riflesso, in apparenza uomini, morti viventi. E che molti di loro hanno l’impressione di non esistere, altri non sanno se sono ancora vivi, che tanti si credono sepolti da molto tempo, che forse Haiti è un immenso cimitero. E la sarcastica finzione si spinge fino a immaginare che in un villaggio fuori mano lavorino nei campi uomini capaci di mangiare solo una volta ogni tre mesi, con gli statunitensi che si precipitano subito a studiarli, spaventati dall’ipotesi che la fame possa cessare di essere l’arma più potente. Fino a quando arriva Legba, il traghettatore, offrendo allo scrittore la possibilità di vederci chiaro, con un passaggio all’altro mondo.

Ma nessun dio vudù aveva messo in guardia Laferrière che, 14 anni dopo, una nuova divinità avrebbe preso forma nella superstizione popolare e l’avrebbe obbligato a interrogarsi con ancora più forza sulla capacità del suo popolo di far fronte a una serie infinita di disgrazie, risvegliando in lui il desiderio di riscattarlo dalla cattiva immagine procuratagli da decenni di dittatura e corruzione. Gudugudù è il nome che gli abitanti dei quartieri più poveri hanno dato al terremoto che ha devastato Haiti il 12 gennaio 2010. Convinti che abbia agito secondo un preciso disegno hanno creato un nuovo nume, il cui appellativo riecheggia il suono di quei secondi devastanti. Laferrière, che quando la terra ha tremato era a Port-au-Prince per partecipare a un festival, lo racconta in Tutto si muove intorno a me (in libreria da giovedì prossimo). «Dopo decenni molto tumultuosi, sembrava che la vita avesse ripreso il suo corso. Di sera le ragazze andavano in giro spensierate fino a tardi. I pittori naïf chiacchieravano con le venditrici di manghi e avocado agli angoli delle strade polverose. La delinquenza sembrava leggermente in calo. Nei quartieri popolari gli episodi di micro-criminalità non erano più tollerati da una popolazione esasperata che nell’ultimo mezzo secolo ha visto di tutto: dittature ereditarie, colpi di stato militari, cicloni a non finire, inondazioni devastanti e rapimenti a tutto spiano». Con l’attenzione al dettaglio del cronista e lo sguardo prospettico e introspettivo dello scrittore, Laferrière delinea intesi e commoventi quadretti della vita ad Haiti prima, durante e dopo la scossa, e del cambiamento che ha prodotto nel cervello di una popolazione imprigionata dalle disgrazie che però aveva saputo dar vita «al primo stato democratico nero indipendente al mondo», il 1° gennaio 1804, quando l’Europa e l’America «hanno distolto l’attenzione dal nuovo Stato, che ha dovuto godersi in solitudine il proprio trionfo (...) E i nuovi liberi, resi folli dalla loro solitudine, si sono sbranati a vicenda come bestie. Da allora l’Occidente addita Haiti come esempio per tutti i popoli che desiderano prima o poi affrancarsi dalla schiavitù senza il suo permesso. Una punizione che è durata più di due secoli».

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