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Expo Pop

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FUORI COLLANA

Expo Pop


«Io un crostino in Bielorussia!», «io un cracker a San Marino», «io niente». Stare chiusi tre giorni all'Expo, oltre a procurare un'abbronzatura “da magutt”, cioè con i segni delle maniche, e lussazioni per il vasto camminamento sulla fettuccia del Decumano, che misura un chilometro e mezzo e si arroventa già prima di mezzogiorno, significa soprattutto illudersi di trovare del cibo gratis. Illusione che viene indotta già arrivando con la Metro rossa con questa pubblicità del Gorgonzola («The Italian cheese that everybody loves»), perché il formaggio, e il latticino in generale, qui sono protagonisti, c'è uno spazio Granarolo e uno spazio Grana Padano, dove ogni giorno due casari fanno “live” due forme di grana però dietro una vetrinetta tipo antiproiettile.
Poi, anche grandi carretti di pecorini e caciotte e caciocavalli esposti sul Decumano rovente: di cartapesta. Alcuni padiglioni sono punitivi, come quello svizzero con le famose vettovaglie che vengono giù e il claim «ce n'è per tutti?», mentre altri sono solamente sadici come quello del Qatar molto visitato - si entra e tra il vasto uso di iPad e 3D e Led, all'ingresso una sciura qatariota e un piccolo qatariota un po' in sovrappeso ti dicono inchinandosi «buongiorno, benvenuto nel padiglione del Qatar», e sono degli ologrammi (la sciura è molto ben abbigliata e signorile, si chiede dunque a una hostess qatariota se trattasi dell'Emira, la hostess viene colta da un sussulto, ma no, ma che scherziamo, per carità). Poi, ecco una lunga tavolata di leccornie catariote tra frittelle e grani saraceni e datteri e pagnotte e cosciotti d'agnello più veri del vero, e molti avventori italici si avventano con mani e forchette, ma si rivelano poi finti, si possono solo trascinare nel piatto con grandi schermi touch, in icona. Una grande metafora? Guardare e non toccare, sarà così anche coi grattacieli milanesi ormai dell'Emiro? Comunque, non si mangia.
Che poi mangiare non sarebbe neanche il primo pensiero, ti si chiude anzi un po' lo stomaco appena passati i controlli molto aeroportuali (ti fanno buttare i liquidi, togliere la cintura, aspetti l'annuncio «armare gli scivoli», il carrello che rientra), però subito entrando si viene subissati di stimoli, con queste apette che girano offrendo «Ves-you-vio» e «Neapolitan chic food» e i gelati governativi Grom e «Bello e buono fritto e frutta» (e un traffico di apette peggio che a Malindi). Poi i caciocavalli (di cartapesta) e una pubblicità ingannevole di mille banchetti che sembrano voler offrire finger food dei più esotici. Insomma, già ben prima delle sette, quando chiudono i padiglioni e rimangono aperti solo i ristoranti, comincia la disperata ricerca della tartina gratuita.
Qui, anche, equivoci: anche i padiglioni di Paesi balcanici minori, cui era andata molta simpatia per pratiche alcoliche democratiche, si rivelano menzogneri, di furbizia orientale. La Bielorussia espone cartelli con cocktail «Belarus Passion» e soprattutto «degustazione prodotti e vodke gratis» su una lavagnetta, ed ecco delle tartine di un grano un po' rustico con sopra salmone e panna, ed ecco dei bicchierini per queste vodke, ma quando ci si avvicina troppo, ecco un asterisco, e sotto, «free» si riferisce alle tartine cartonate, ma solo insieme allo shottino, che viene tre euro (non è tanto, per carità, però questa bielorussa era sembrata l'unica oasi di gratuità; si era riflettuto sull'entusiasmo genuino di queste repubbliche ex sovietiche; che oltre al «Belarus Passion» e a esposizioni di acquaviti e centrini ricamati e frutta di ceramica mostravano con orgoglio trattori di Stato marca «Belarus» e un menù «Pasta salmone e panna», e si era pensato «beate queste repubbliche in pieno boom, beati i loro anni Ottanta»). Invece niente, invece ecco la richiesta dell'obolo. Qualcuno investe, e di sabato sera, ecco dei signori forse dell'Est o forse dei Bastioni che iniziano a ballare delle balalaiche tra di loro, scatenati in dj set balcanici.
Il dj set poi è la sublimazione della tartina impossibile e gratis: ogni padiglione ha il suo; i più istituzionali lo mettono su in serata, i più smandrappati lo lasciano tutto il giorno. I più discotecari sono Olanda e Belgio, proprio accanto al Vaticano, e forse con mancanza di rispetto, accanto alle insegne gialle e bianche di San Pietro nel weekend è il posto dove c'è più bordello: gli olandesi astuti praticamente non hanno padiglione ma solo dei gran camioncini di hamburger e birra, con musica a palla dal pomeriggio, e dj. Si tenta comunque qualcosa di istruttivo tipo festival dell'Economia di Trento, con una gran giostra o calcinculo intitolato al «Futuro, l'economia circolare», servirebbe per i bambini che dovrebbero andar su a capire come l'economia circolare, cioè di riciclo e di riuso, fa bene all'umanità, ma i bambini hanno paura, in mezzo a quel casino tra lo sfrigolare di salamini; salgono solo delle gran coppie a limonare, e non vogliono più scendere. L'Olanda astuta mette in campo dei wurstelini a 3,50 euro, vengono cotti in forno, è un panino con già incorporato il suo wurstelino, farà malissimo. Con sette euro si mangia hamburgerino e birra fredda. Ma ci sono poi grandi file per polpette e patatine e typical dutch worstenbrood o alternative burger con seaweed cioe alghe di mare, per utenti più riflessivi.
Ha il suo dj set Israele, ha il suo dj set la Repubblica Ceca: questa sta poco dopo l'ingresso, sulla sinistra, pare la casa di Jonathan Franzen costruitagli da qualche archistar pazza: una gran villetta a due piani di lamierino, identica a quella di Mon oncle di Jacques Tati, e gran piscina sotto azzurra con sculturona metallica che è metà vecchia Cadillac e metà uccellone azzurro, è proprio la dendroica cerulea di Libertà, non c'è dubbio. Questa scultura sprizza anche acqua, dalla parte automobilistica, e quando cala la sera e il Decumano si è scaldato bene, tutti arrivano qua, cechi e non cechi, si tolgono le scarpe e mettono i piedi dentro l'acqua. Qualcuno fa anche il bagno, qualcuno arriva in accappatoio. C'è il dj set e ci sono le sdraio, ci sono camerieri biondi, pare insomma una serata di ricchi praghesi o comaschi (un milanese seduto nella sdraio, un po' su di giri dopo molte birre dice al telefono: «Siam qua, sotto il Volvosauro» (ma l'opera si chiama “Porta dalle forme libere”, di un pregiato scultore ceco Lukas Rittstein).
Battere il Decumano con la musica a palla in cerca di una mozzarella è faticoso, per fortuna ci sono gli sportivi filogovernativi di Technogym, con questi showroom sparsi per tutta la fettuccia dove tentano di venderti soprattutto delle palle pelose nere che fungono da sedia (in piena temperie da ufficio verticale, dopo il bosco verticale) e costano duecentocinquanta euro. È la versione evoluta del vecchio trespolo Stokke che tutti abbiamo avuto e tutti maledetto. Queste invece funzionano, effettivamente, e a ogni vasca sul Decumano tutti passano di lì a sedersi sulle palle pelose con beneficio di lombari, però poi nessuno le compra. Alle sette, quando chiudono i padiglioni e rimangono aperti solo i ristoranti, arrivi lì di fronte pronto a metterti in fila per la tua sessione di lombari e invece rimani col tuo mal di schiena, senza palla pelosa, che è inchiavardata sotto vetro, come i formaggi nell'area Grana Padano.
Intanto, con la schiena spezzata, sei solo di fronte all'immensità dell'Expo. Tra indicazioni confuse e surreali tra Stati sovrani, ex URSS e DOP e DOCG, con cartelli che indicano: «Regno Unito-Vaticano-Franciacorta», e si troverà anche un cartello «auditorium», forse, come quelli sulla Luna veltroniana. Invece, ecco il Castelletto del Franciacorta, col suo feudatario Maurizio Zanella patron di Ca' del Bosco, che offre da bere ai fratelli Rossetti delle scarpe, reduci da un talk nella sede del Corriere della Sera, che sembra una cappella di famiglia molto moderna; e stappano magnum top di gamma lamentandosi molto del confinante padiglione del Kazakistan che mette su accaventiquattro balalaiche e marce tipo Kusturica e sfonda i timpani a tutti e inibisce le consumazioni.
Nella repubblica caucasica dell'Expo ci sono anche concorrenze; al Franciacorta ci son menu da 120 euro con il caviale bresciano fatto nelle ex vasche di raffreddamento del tondino, e pare abbia surclassato tutti i beluga che si trovano nel vicino padiglione Iran. E scusate ma qui si è in pieno #orgogliobrescia, come da targa sull'Albero della vita, il grande mammozzone prodotto in macroregione che ricorda certi lampioni liberty a cui ignoti ladri hanno rubato il globo in case di vecchie zie (la sera però si rianima coi giochi di luce e con «iconic italian music», come dice il sito).
Comunque nella repubblica caucasica dell'Expo la grande Madre Russia tenta una politica di soft power: promette cibo e alcol e poi ti propina La corazzata Potëmkin in ginocchio sui ceci. Cartelli fuori infatti ad annunciare degustazione di vodke e cibi tradizionali russi ogni ora, ma si è provato ripetutamente, ci si mette in fila, alla fine è sempre troppo presto o troppo tardi, non si son visti né blinis né vodke, mai. In compenso, il padiglione è il più ambito per i selfie da sdraiati, sotto il grande portico specchiato, ci si butta per terra a gruppi e si fotografa il soffitto (mentre, in generale, non si è visto alcun braccetto per selfie, in tutto l'Expo. È importante).
Dentro, però, oltre all'illusione alimentare, gran pistolotti su video-wall inquietanti enormi, insegnano che «l'inesauribilità delle risorse naturali russe costituisce la nostra sicurezza alimentare». E «lo spazio russo comprende i quattro elementi: aria acqua terra fuoco», vabbè, ma pure quello di San Marino, e quello di Brescia, no? E l'accumulo di primati che forse cela qualche complesso: il lago Bajkal, «il più profondo deposito d'acqua dolce del mondo», e così via. Anche, nostalgie ferroviarie con finta carrozza-ristorante di Transiberiana, dove si può cenare con finti finestrini e la campagna russa che scorre su schermi Lcd laterali, tipo Metropolitana della Steppa. 
Niente promesse, invece, al nostro padiglione preferito, quello del Turkmenistan, che sembra una piscina pubblica d'altri tempi con gran tappeto o kilim a Led sull'alta facciata, e dentro mostra tutti i trionfi del presidente Gurbanguly Berdimuhammedow: lui con cravatta a pois berlusconiana e colomba che gli vola dalle mani, lui su libri forse best-seller dai titoli «World recognized leader» e in copertine di riviste di turismo, in sahariana bianca, il suo capello tinto e sotto una svelta dolcevita fucsia; lui con cavallo bianco e un'estetica da Teodosio Losito o uomo Lebole.
Dentro il padiglione, visitatori italici guardano con perplessità gadget dei più di nicchia: modellini di aliscafi e petroliere e aeroplani di Turkmenistan Airlines e calendari tipo Frate Indovino di linee marittime turcmene e taniche di olio turcmeno e piccole piattaforme petrolifere (anche in versione d'ottone da scrivania) e cotton fioc evidentemente fiore all'occhiello dell'industria nazionale, e cavolfiori di plastica e barattoli di detersivo per piatti marca “Dana” e “Sa” e magliettine assai hipster della Marina turcmena. Cibo, comunque, niente.
Niente neanche al padiglione dell'Azerbaijan, con enorme bolla di cristallo tipo architettura Fuksas per le distillerie Nardini a Bassano sul Grappa, che però piace tanto ai visitatori, è uno dei più amati, ha tanti fiori virtuali, dei papaveroni che a sfiorarli ti raccontano le biodiversità. Wow.
Davanti, invece, grande e misterica scultura pop che sembra una caramella Rossana come quella che Michael Caine scartoccia tutto il tempo in Youth, o tortellone Gioiaverde Giovanni Rana. Invece, nel padiglione Corea del Nord, non solo niente cibo ma neanche foto di Ciccio Kim né a cavallo né in barca né mentre stermina parenti; forse le dimensioni non lo consentono, ma qui si pubblicizzano soprattutto delle gran radici di zenzero, un francobollo commemorativo, e cosmetici basati sullo zenzero, e una vista di Pyongyang molto invitante con bateaux mouches i e barchette chiaramente fotoshoppati.
Ed è interessante notare il placement dei padiglioni: i Paesi ricchi hanno il villone monofamiliare sul Decumano, tipo Austria, Stati Uniti, Svizzera. Quelli poracci hanno il bilocale sempre su Decumano ma defilato (Bielorussia, Malaysia eccetera). Quelli poraccissimi o prossimi al default vengono raggruppati in “cluster” che sarebbero aree tematiche ma che sono tipo comprensori finto signorili per abitanti poco liquidi. Ecco dunque che la Corea del Nord è in un cluster “Isole” dalle parti dell'Albero della Vita, insieme a Grecia (tre metri per quattro, tipo monolocale non soppalcabile) e Albania. Il cluster delle Isole è molto educativo perché ci sono tante citazioni alate («nessun'isola è un'isola»; «il mare unisce i Paesi che separa»), poi ecco le Maldive e isole che si erano sempre studiate a scuola ma si dubitava della reale esistenza: le Comore, St. Vincent and the Grenadines, Santa Lucia, e poi manifesti informano che ci sono anche delle isole nuove nate, a causa della cattiva manutenzione del pianeta. Si apprende che la più grande del mondo, di 2.500 chilometri di diametro, profonda 30 metri, composta all'80 per cento di plastica, si chiama Grande Chiazza di Immondizia del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) e sta approssimativamente fra il 135esimo e il 155esimo meridiano Ovest e tra il 35esimo e il 42esimo parallelo Nord. La Grande Chiazza di Monnezza è veramente deprimente, però dopo la depressione almeno ti danno qualcosa da mangiare: a San Marino, sempre nel cluster poraccio, ecco delle croste di pane e del vino. La Regione Sicilia, invece, ha un baracchino di fritti che pare liberale, ma poi salta fuori il registratore di cassa. La Grecia ha gran video di souvlaki e moussaka, ma niente di non virtuale.
Ma da lontano ecco una musica: ecco una danza dei sette veli nel confinante padiglione Libano, e tutti dei gran vecchietti brizzolati che prima sedevano in un vialetto tra Germania e di Svizzera, una specie di boulevard “nostalgia dell'Impero” o Brodskij in un boschetto di pioppi ad ascoltare un sestetto di violini, e adesso vengon qua a sentire questo dj libanese. Però anche qui naturalmente si viene già mangiati. Tocca dirigersi ancora verso il Decumano, e lì gran folla invece dal vituperato McDonald's con panini “limited edition” McVeggie e McAngus for Expo, e invece nessuno, proprio nessuno, con tragica nemesi, magna al padiglione di Slow Food; anche loro hanno il loro orto, come tutti, e i loro rosmarini e le loro salvie, però forse la copertura di legno lamellare fa un po' piscina comunale, forse i menu son tristi; ma sotto le barchesse del “teatro Slow Food”, solo solitari avventori arrivano a queste Colonne d'Ercole per prendere Pecorino di Osilo o Taleggio Dop e Gallette di mais Pignoletta biologiche. (E forse in questo “Pignoletta” sta un po' la marginalità di Slow Food, che pure è dove tutto è nato; ma forse è il solito paradigma Philips, che inventa il cd ma poi arriva la Sony a renderlo fico). Dunque mi avvio anch'io verso il mio hamburger di carne Fassona, mi siedo a mangiare sotto una vetrinetta con tutti i libri del collega del leader turcmeno, Oscar Farinetti, tutti accatastati in un piccolo bookshop all'aperto. Da qui vedo lo spettacolo #orgogliobrescia, con i giochi di luce e le “iconic italian music”, e tutti son lì che si fanno i selfie senza braccetto. Mentre mangio la Fassona sotto la faccia di Farinetti sento dei nostalgici Vivaldi, poi Fabio Concato e addirittura Alan Sorrenti. Poco distante, nella Repubblica Ceca, stanno già facendo il bagno sotto il Volvosauro, sono felici.

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