Anche l’«ontologia sociale», come l’Essere di Aristotele, – da quando Husserl nel 1910 ne parlò per la prima volta – si dice in molti modi. La si dice alla Searle o alla Ferraris, per esempio, insistendo l’uno sui cosiddetti “poteri deontici” – diritti, permessi, obblighi, autorizzazioni, doveri – e l’altro sulla «documentalità», ed entrambi sull’importanza di oggetti come denaro, patenti di guida, carte di credito.
Siamo nel variegato regno della normatività che tiene insieme la nostra società e il nostro vivere civile, ivi inclusi oggetti strani e variegati come le gite al mare, i diritti civili, le famiglie, gli appuntamenti di lavoro, la legge elettorale, l’accredito dello stipendio, i matrimoni, le promesse, i contratti di lavoro, le band musicali, i goal, le feste, le tasse, le elezioni, i ristoranti, i biglietti del treno... Uno dei modi più convincenti per orientarsi in questa giungla è quello di Margaret Gilbert, che da domani sarà protagonista di un grande convegno di tre giorni al San Raffaele di Milano con i maggiori esperti italiani e internazionali di ontologia sociale sotto il titolo Joint Committment: intenzionalità collettiva, fiducia e obbligo politico.
Come si legge nel volume della Gilbert in uscita per l’editore Cortina, Il noi collettivo. Impegno congiunto e mondo sociale (a cura e con una bella introduzione di Francesca De Vecchi), tutto ruota intorno a domande come: A quali condizioni possiamo considerare un insieme di persone come un collettivo o un gruppo sociale? Che tipo di unità è possibile a partire da esseri umani diversi che hanno le loro proprie personali credenze, aspirazioni e simili? Quando parliamo dei nostri obiettivi, delle nostre credenze, dei nostri valori, di che cosa stiamo parlando? La nozione di «impegno congiunto» è la chiave per ogni risposta. «Un impegno congiunto si crea semplicemente per mezzo della dichiarazione di disponibilità a impegnarsi congiuntamente da parte degli individui coinvolti». Tale dichiarazione deve avvenire alla luce del sole e deve essere percepita da tutti i partecipanti.
Sto facendo una passeggiata. Anche tu stai facendo una passeggiata. Ci incontriamo e ti chiedo: «posso unirmi a te»? Solo se tu acconsenti potremo dire che noi stiamo facendo una passeggiata. Semplice no? E ciò, implica, anche nelle situazioni più banali, diritti, doveri, obblighi. Solo che, osserva acutamente Gilbert, ciò non implica che si tratti necessariamente di obblighi morali. Infatti ci sono obblighi che si generano in questo modo e che non lo sono affatto: ci si può impegnare, in due o più persone, con modalità che implicano anche azioni immorali. Uno dei componenti può esserne consapevole eppure sentirsi, sia pure in una situazione di disagio, obbligato a compierla per effetto del noi in cui è coinvolto.
Basterebbe questa semplice idea per far capire quanto una buona analisi filosofica possa essere utile per spazzare via idee confuse e pervasive. È un bell’esercizio antimoralistico, utile per impostare al meglio le questioni sociali. Né si può parlare a cuor leggero di un’entità o una coscienza collettiva che sovrasta gli individui, perché il poter dire noi deriva da un puro atto di libertà tra persone che lo vogliono.
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