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Viaggio al termine della scuola

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Viaggio al termine della scuola

In passato ho fatto l’insegnante di italiano per stranieri. L’ho fatto per anni nella sede siracusana di un’università della Pennsylvania.
Gli stranieri a cui insegnavo erano ragazzi americani che giravano la Sicilia per ragioni legate ai loro studi: archeologia, lingue antiche, geologia, storia, biologia marina.
Palazzo di prestigio, 45 o 90 contact hours per corso, spalmate su 15 settimane, perfino un piccolo budget tutto mio, da utilizzare per attività fuori dall'aula.

Era un bel lavoro. Poi pazienza, è finito.

Ho cominciato a insegnare ai ragazzi italiani. Italiano e storia presso un ente di formazione professionale.

Gli enti di formazione professionale sono una specie di ultima spiaggia: raccattano la dispersione scolastica, cioè quei ragazzi ancora in obbligo formativo (una legge impone che si vada a scuola fino a sedici anni) che per vari motivi non riescono a frequentare con profitto licei, istituti professionali e istituti tecnici, e li avviano a una professione artigianale.

Il mio ente, nello specifico, li avvia a quella di estetista o di acconciatore.

Non è un bel lavoro. Mi fa a pezzi i nervi e mi istiga alla lotta di classe.

Le classi dentro le quali lotto sono composte per lo più da analfabeti funzionali tra i 14 e i 20 anni. Lo studente-tipo abita in una casa-famiglia, oppure con uno solo dei due genitori, in uno dei quartieri malfamati della mia città o di uno dei paesi in provincia. Di solito è dedito a una qualche forma di microcriminalità, si esprime unicamente in dialetto, ha una predilezione spiccata per le canzoni neomelodiche che parlano di galera, pentiti, corse di cavalli clandestine.

Quando verifico le competenze iniziali viene fuori che Londra si trova a New York e che oltre lo stretto di Messina c’è il Marocco («Per questo siamo pieni di turchi, prof»). Lo studente-tipo non è affabile, spesso minaccia violenza fisica e a volte passa a vie di fatto.

C’è da rimboccarsi le maniche e cominciare tutto da capo: «Si può dire “se io andrei”? Quante sono le regioni d’Italia? Parmigiano si scrive con due “g” o con una sola?».

Pazienza, l’importante è tornare a casa senza aver preso neanche una coltellata.

Non penso di essere il solo ad affrontare situazioni di questo genere, di sicuro parecchi istituti pubblici (specie le medie inferiori) e privati (specie le medie superiori) sono frequentati da studenti simili, afflitti da un misto di disturbi comportamentali e lacune scolastiche.

La formazione professionale però è messa un po’ peggio. È materia di competenza regionale, e la Regione appalta il servizio a enti che si definiscono afinanza derivata.

La differenza tra una banale Onlus e un ente a finanza derivata è sottile, e non interessa nemmeno a me che ci lavoro: l’unica cosa da sapere è che la Regione siciliana non paga l’ente e l’ente non paga me.

Pazienza, io continuo a insegnare lo stesso.

Penso perché, le poche volte che uno di questi pendagli da forca azzecca il congiuntivo in un periodo ipotetico del terzo tipo, o che una di queste improbabili infornatrici di unghie finte sorride leggendo il brano in cui Lucia converte l’Innominato, avverto in me l’esplodere di un narcisismo molto sfacciato: mi sento Michele Placido in Mery per sempre1, e mi picco di saper apprezzare la poesia di questi minuscoli trionfi.

È una malattia che colpisce anche molti miei colleghi, quindi sì, effettivamente il narcisismo è deprecabile, però in qualche modo, appagando il lavoratore, manda avanti un sacco di baracche a finanza derivata. Ho detto appagando, non pagando. Per cui pazienza, a un certo punto ti devi cercare un altro lavoro.

Qualche tempo fa è arrivata l’occasione di tenere un nuovo corso di italiano per stranieri. Stavolta non sono universitari americani. Sono migranti. Il corso mi è stato affidato da un’associazione locale che afferisce allo SPRAR.

Io non lo sapevo cosa significava SPRAR. Quando ho firmato il contratto l’ho dovuto cercare su Google: vuol dire Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati. In pratica è la rete delle associazioni locali che si occupano di fornire a queste persone qualcosa in più rispetto al primo soccorso. Qualcosa in più. Per esempio un corso di italiano per stranieri.

Così la mattina — dalle otto alle due — insegno italiano a quattro classi di ragazzi italiani in obbligo formativo, e il pomeriggio a una doppia classe di migranti — un turno dalle tre alle cinque e un altro turno dalle cinque alle sette.

Le due scuole distano tra loro circa tredici chilometri, e capita che per arrivare puntuale debba saltare il pranzo. Pazienza, a ricreazione mangio due panini al posto di uno, e poi faccio tutta una tirata fino a ora di cena.

Se c’è qualcuno che legge, e se questo qualcuno è un insegnante, magari di una scuola pubblica, con una di quelle cattedre a diciotto ore di lezione settimanali, probabilmente si sta chiedendo se sia possibile farne dieci al giorno, di ore di lezione, ad almeno cinque classi diverse.

La risposta è no, non è possibile. Perché preparare le lezioni alla sera, scegliere i materiali, tarare strategie didattiche mirate e personali su almeno centocinquanta studenti, richiede una lucidità impossibile per chi ha trascorso dieci ore della giornata a delirare nei pressi di una cattedra. Quindi qualcuno finirà per rimetterci. Io, per esempio, ho già perso qualche chilo. Però pazienza, un po’ per narcisismo, e un po’ perché devi mettere assieme i soldi per campare, lo fai: prendi tutti i lavori che trovi e li sommi fino a quando non ottieni l’equivalente di uno stipendio.

Gli immigrati dei miei due corsi sono ragazzi che sono arrivati su un barcone o con altri mezzi di fortuna dal Mali, dal Gambia, dalla Nigeria. Qualcuno dal Bangladesh. Prima la Libia e poi qua.

Le uniche due cose in cui somigliano a quelli della formazione professionale sono l’età e il basso grado di scolarizzazione. Per il resto sono molto più simili ai ragazzi americani dell’università: dentature perfette e bianchissime, altezze vertiginose, andature dinoccolate, clima di rilassata cordialità in classe.

Anche qua, sarebbe piuttosto facile descrivere l’aspetto narcisistico di questo nuovo lavoro, e raccontare quanto c’è di verace in persone dal destino sfortunato, che prive di mezzi hanno affrontato un viaggio pericoloso, spinte dalla voglia di migliorare la propria esistenza. Dovrei dire della soddisfazione che mi dà sentire Muhammad ripetere tutta intera una frase in italiano senza sbagliare i pronomi combinati, o del sorriso da bimbo che compare in faccia a Boubou, un energumeno di due metri per due dall’aspetto scontroso, quando azzecca l’articolo determinativo giusto per la parola “aereo”.

Ed effettivamente, in questo nuovo lavoro, c’è lo stesso appagamento che c’è in quell’altro, quello coi ragazzi italiani della formazione professionale.

Infatti è un altro lavoro di merda.

Si mangia il novanta per cento dell’energia che ho in corpo, e come ricompensa mi restituisce una manciata di euro del tutto insufficiente al mio sostentamento, che io integro producendo dentro me stesso l’idea falsa, alterata e bugiarda di stare svolgendo un lavoro utile alla mia comunità cittadina.

Così, alla fine di giornate primaverili come questa, mentre il mio Ramadan sta per terminare e me ne torno a casa in Vespone sulla Floridia-Siracusa, con la zagara che mi entra dentro al naso mischiandosi ai gas di scarico degli autoarticolati, l’euforia da classe che va spegnendosi chilometro dopo chilometro, il sole che non ne vuole più sapere di abbassarsi, il caldo che fa già venire voglia di strapparsi di dosso la pelle a brandelli, succede che nell’umore mi s’infiltra una forma di misticismo ipoglicemico. Allora mi vedo come da fuori, ripreso dall’alto con un drone, io che guido e Osho seduto dietro di me, senza casco e nella posizione del loto, concentrato sulle domande che gli vado rivolgendo controvento: «Che fine sta facendo la mia energia vitale? La sto dissipando? Sta andando perduta nel cosmo?».

Il lavoro che faccio, a causa del contatto umano che devo stabilire (obbligatoriamente positivo, pena la perdita di qualsiasi forma di attenzione in classe) mi impone di generare un continuo flusso di coinvolgimento. Le forze che impiego per produrlo devono abbandonarmi e trasferirsi agli studenti. Sempre. Anche quando, invece, vorrei tenermele strette. Solo che questa energia, una volta generata, non si trasforma.

Gli studenti dentro l’aula dello SPRAR o dell’ente di formazione professionale al massimo piluccano qualche molecola. Il resto lo lasciano tutto per terra e il sole se lo asciuga.

È uno spreco di cui non mi sento responsabile. «Non è colpa mia!», urlo per farmi sentire da Osho. «Sì che è colpa tua!», mi risponde la signora alla guida del Suv che ho dietro, «non hai messo la freccia, scimunito!».

Va bene, sì, forse effettivamente un poco è colpa mia. Ma fino a un certo punto. Non ho a disposizione il tempo, le risorse e forse neanche le competenze (dopotutto mi sono laureato in Filosofia, non sono un assistente sociale né un educatore professionista) che mi consentirebbero di rendere i miei sforzi più produttivi.

Per il resto è colpa loro. Degli studenti.

Che si tratti della Mazzarrona o del Sub-Sahara, sono esseri umani difficili da gestire. Difficilmente assorbono e ancora più difficilmente restituiscono. Non credono nemmeno per un minuto all’utilità di ciò che imparano. Mi guardano e mi vedono come un tizio d’altri tempi, con l’hobby stravagante dell’analisi del periodo: tutto è inutile, tutto è perdita di tempo. E non c’è mastery learning o role playing o problem solving che tenga: le tecniche d’insegnamento non possono nulla di fronte a uno studente che ti considera estraneo alla realtà in cui vive.

La realtà in cui vive, ti dice lo studente-tipo, autoctono o migrante che sia, se ti sai adattare tutto sommato è comoda: l’italiano non serve a niente, tanto non lo parla nessuno. Il lavoro neppure, basta saperci fare coi furti di destrezza e il piccolo spaccio. A 18 anni puoi anche emanciparti dalla famiglia di origine e metterne su una tua, andare a vivere con la tua ragazza, che di anni ne ha sedici, e avere subito il primo figlio. Per la casa si fa presto: la affitti, e dal primo mese in poi entri subito in morosità. Quando ti sfrattano, se ci riescono, ne cerchi un’altra e ricominci da capo. Oppure sfondi la porta di un alloggio popolare e ti ci installi dentro. Per la luce, tiri un cavo abusivo e ti allacci alla caserma dei pompieri. Se ti serve un motorino puoi sempre rubarlo. L’assicurazione, il bollo, la revisione dei veicolo è sufficiente non pagarli mai: del resto non hai neanche la patente. Qualche euro per la benzina lo trovi sempre. Oppure svuoti il serbatoio del primo Liberty che trovi, tanto si sa che il tubicino è a vista e a staccarlo ci vuole un attimo. E se ti dovesse fermare la Stradale, che ci vuole? Prendi a schiaffi il vigile, oppure scappi a tutta velocità dal posto di blocco, protetto dai tuoi amici e dai tuoi vicini di casa.

L’autoctono fa già così. Il nigeriano lo farà appena impara. E a quel punto richiama la sua famiglia, di solito numerosa, fatta di sorelle, cugine, zie e nipoti. Oppure si sposa qua. E procrea. Hai voglia se procrea.

A che serve studiare storia, economia, matematica, italiano, diritto, scienze naturali, in un posto così? A pagare la tassa di circolazione del Vespone e poterla mostrare tutto orgoglioso al vigile urbano quando ti mostra la paletta? «Vale la pena, prof? Me lo dica lei, che conosce l’infinito passato del verbo “condurre”».

Che ne so, ho fame e non ce l’ho una risposta. L’unica che mi viene è che l’istruzione serve solo se da quel posto in cui abiti te ne vuoi andare. Se invece ci stai bene, no, non te ne fai niente. Io non ci vorrei stare. Quindi per me sì, vale la pena.

Però vallo a convincere, lo studente-tipo, che fuori dal suo quartiere si vive un’altra vita. Forse pure lui ha fame. Ma come faccio, se questa vita alternativa
non gliela posso fare assaggiare?

L’unico posto in cui organizzare questo tipo di degustazioni sarebbe la scuola. E invece la scuola che frequenta lui è la riproduzione in scala minore del quartiere in cui abita: per compagno di banco si ritrova il suo dirimpettaio di pianerottolo.

Niente, forse è che sono proprio un’anima bella, e gli studenti tendo ad  assolverli sempre 2.
Anche quando si rincorrono per i corridoi con il Super Liquidator caricato a urina e Ace Gentile. Anche quando mi siedo sulla cattedra per atteggiarmi a Robin Williams ne
L’attimo fuggente3e loro fanno subito partire quella app che simula i peti.

«Di chi è la colpa, allora? Mia o tua, caro studente-tipo?», urlo al camionista che mi supera mentre attraverso il ponte sull’Anapo, con l’aria improvvisamente fredda, umida e strapiena di moscerini che mi finiscono in bocca e dentro agli occhi. Dopo anni di lavori come questi, dico al camionista che mi ha prima mostrato il dito medio e poi fatto cenno di accostare mostrandomi una spranga di ferro con cui intende suonarmele, sono giunto alla conclusione che in entrambi i casi, lo SPRAR e l’ente di formazione professionale, la responsabilità di questo spreco, lo spreco della mia energia vitale e lavorativa, sia colpa di una formula destinata di per sé a fornire più sfrido che prodotto: agli studenti peggiori, le scuole peggiori e gli insegnanti peggiori.

Il camionista sembra colpito. Abbassa la spranga e mi prende sottobraccio. Mi conduce a una specie di affaccio che c’è sulla piazzola di sosta, e mi fa cenno di guardare oltre il guard rail, dove al posto del cartellone pubblicitario è comparsa una LIM gigantesca. «Io a scuola andavo male», mi dice, «però non era colpa mia. Il professore d’italiano ce l’aveva con me».

«Va bene», gli faccio io, «dite sempre così quando vi interroghiamo dal posto e non avete studiato. Comunque lei se lo ricorda Ovosodo4?»,
gli chiedo.

All’inizio di Ovosodo, memorabile film di Paolo Virzì datato 1997, c’è questa scena con il protagonista Piero Mansani, residente in un quartiere popolare di Livorno, che si vede di colpo catapultato in un liceo bene della città, soltanto perché alle medie ha trovato una professoressa di lettere brava, molto brava, la professoressa Giovanna, che gli ha fatto scoprire l’utilità della lettura e lo ha appassionato allo studio. L’appello del primo giorno è invece per l’anziana insegnante del liceo un mero pretesto per rintracciare le ascendenze notabili di ogni singolo nome. Piero capisce di essere un intruso, capitato in quella bella scuola quasi per sbaglio. Per togliersi dall’imbarazzo decide allora di sfruttare l’omonimia e spacciare suo padre per il presidente del Rotary locale.

Tre anni dopo l’uscita del film ci fu la Riforma Berlinguer. Nel giro di qualche lustro, ce ne furono altre due, quella Moratti e quella Gelmini. La scena di Ovosodo si interrompe, e stiamo sorridendo tutti e due, io e il camionista scarso in italiano, perché lo sappiamo che in fondo è ancora così: dentro ogni città c’è un quartiere bene, e dentro ogni quartiere bene c’è la scuola bene. E dentro ogni scuola bene c’è la sezione bene, creata ad hoc da presidi, insegnanti e genitori, che aprono le porte dell’eccellenza a qualcuno e confinano in un ghetto qualcun altro, esattamente come se si trattasse di un circolo privato.

«Pazienza», dico al camionista, «non è tanto questione di simpatia o antipatia. Più che altro è che l’unico ascensore sociale che abbiamo in Italia somiglia a un autobus dell’Alabama nel 1955». Poi ci stringiamo la mano e continuiamo ognuno il nostro viaggio.

Io comunque la giornata ce l’ho troppo piena, e non ho fatto in tempo a scrivere la mia opinione sul sito della Buona Scuola, come il ministro aveva chiesto di fare agli insegnanti.

Più volte, però, alla sera, aprendo il frigo e addentando le sottilette ancora avvolte nella plastica, mi sono ritrovato a chiedermi se questo mettere le mani su reclutamento e stipendi degli insegnanti, poteri del dirigente e graduatorie varie (insomma quel groviglio inestricabile che è la legislazione sulla scuola italiana) si possa davvero definire una riforma.

Una riforma della scuola, per essere tale, forse dovrebbe farsi un altro genere di domande, prime tra tutte queste: chi sono gli studenti delle scuole italiane? Da dove vengono per la maggior parte? Dove abitano?

In uno dei quei parossismi di narcisismo in cui mi sento Robert De Niro in Mission5, io l’ho fatto: ho messo l’oboe a tracolla e ho scalato le cascate dell’Ufficio Anagrafe. Volevo contare le nascite degli indigeni guaranì con il mio pallottoliere da gesuita: in quali quartieri se ne registrano di più ogni anno?

Il funzionario che lavora al Comune di Siracusa mi ha detto di smetterla con quel cavolo di oboe, il suono lo innervosiva parecchio, e che comunque per contare non gli serviva il pallottoliere: la cosa si vedeva a occhio nudo, e di sicuro sono i quartieri peggiori della mia città, le case-parcheggio di via Italia, i condomini di case popolari in cima a via Algeri, certe zone di bassi fatiscenti della borgata Santa Lucia e del centro storico di Ortigia.

Perciò, sputando via la plastica e tentando di masticare solo le sottilette, ho ripensato al mio studente-tipo e alla sua ragazza incinta. Probabilmente da qua ai trent’anni di figli ne avranno fatti almeno altri due, magari altri tre, e forse avranno anche cambiato partner una serie volte. «Vuoi vedere che i quartieri dei miei studenti-tipo crescono al doppio della velocità dei quartieri bene?», ho chiesto all’ultima sottiletta rimasta dentro al pacco.

Che poi la demografia non dovrebbe essere una risorsa? «Certo, ma solo a patto che i nuovi nati ricevano la possibilità di poter migliorare le proprie condizioni di partenza», mi risponde l’ultima sottiletta prima di sparirmi tra i denti.

Se il mio studente-tipo nasce e muore nello stesso quartiere, quel quartiere si ingolferà di individui senza prospettive, e tenderà a staccarsi dal resto del tessuto urbano: diventerà un feudo di illegalità cui manca forse solo il ponte levatoio. I suoi abitanti, crescendo man mano di numero, graveranno su un welfare da cui riceveranno servizi sempre più scadenti. Servizi come ad esempio l’istruzione. Invece il mio studente-tipo è un caso grave, non può permettersi di ricevere un’istruzione scadente, altrimenti finisce che lo perdiamo. E soprattutto finisce che perderemo i suoi futuri quattro marmocchi, la nostra futura risorsa demografica, dice il missionario gesuita che c’è in me. Per il mio studente-tipo, come si dice per i medici, ci vuole uno bravo.

Effettivamente, in Ovosodo, Piero Mansani si salva. E sì, è vero che alla fine del film Piero farà un pessimo esame di maturità (ma nel frattempo la professoressa Giovanna è andata a letto col suo migliore l’amico e l’ha deluso), continuerà ad abitare nel suo quartiere popolare e finirà comunque per fare l’operaio, però è anche vero che sarà un operaio diverso, istruito, con degli interessi suoi, migliore forse, e alleverà la figlia Giovanna (la chiama così in onore della professoressa) con una saggezza che non avrebbe acquisito se non avesse sperimentato in un periodo della sua vita un’alternativa.

Quindi invertire la formula in: agli studenti peggiori-gli insegnanti migliori, quantomeno nei film, funziona.

Bene. Rimane comunque il fatto che quel liceo non era destinato a Piero.

Lui in quella scuola ci si è trovato per caso, grazie all’incontro con una professoressa brava e carismatica come Giovanna. Che poi bella forza a essere bravi e carismatici con uno solo, mi dico per consolarmi: un conto è avere un Piero Mansani in classe, e un conto è avere una classe di Pieri Mansani. Probabilmente anche le energie di una professoressa brava e carismatica andrebbero dissipate.

Ci risiamo: di nuovo lo sfrido. Di nuovo l’entropia. Nella sottiletta un po’ di plastica deve comunque esserci rimasta impigliata, perché non mi va né su né giù, mi resta in gola come l’uovo sodo del film di Virzì.

La situazione va sbloccata, bisogna tarare meglio la formula: gli studenti difficili vanno prima inseriti in contesti migliori dell’ambiente da cui provengono, e poi seguiti dagli insegnanti più bravi. Più bravi, potrebbe significare più preparati, più professionali, più specializzati di quanto non sia io: non lo so, ho questa cataratta del narcisismo che mi impedisce di vedermi per quanto valgo davvero. Di sicuro però più bravo significa uno con più mezzi e più tempo a disposizione di me. Me: un precario che colleziona tre o quattro contratti a termine contemporaneamente, si arrangia in aule in cui a stento ci sono le sedie e ruba il gessetto per la lavagna al collega quando si allontana per andare in bagno.

Questo genere di condizioni non attira i migliori, non attira i più preparati: al massimo attira quelli con la vocazione dell’eroe, i Michele Placido, i Robin Williams, i Robert De Niro.

Se vuoi che a occuparsi di questa risorsa demografica sia una professoressa Giovanna, c’è poco da fare: la devi pagare bene. Bene significa: assai. Assai significa:

Gentile Ministro Giannini,

qua, per prima cosa, ci vogliono i piccioli.

Lo dico a mia moglie, che è appena rincasata e ha ancora le buste della spesa in mano.

«Che fai, sfotti?», mi fa lei tutta seccata. «E poi quali piccioli? Qua la spesa l’ho fatta di nuovo io. Almeno dammi una mano con le buste, no?».

Io invece la obbligo a mettersi seduta con un foglio e una matita per gli appunti. Poi afferro il gessetto che c’è accanto alla lavagnetta che usiamo per scambiarci i messaggi in cucina, e comincio a tracciarle una mappa concettuale.

Rendere appetibile ai migliori un mestiere importante come l’istruzione passa per una strada sola: stipendi più alti e più regolari. Insegnare nelle scuole, e in particolare in quelle difficili, attualmente è considerato quasi un ripiego: parecchi miei colleghi mi hanno raccontato che durante la loro carriera, culminata poi in una cattedra, cioè un’assunzione di ruolo all’interno di una scuola pubblica, sono passati dal carcere. O da un ente di formazione professionale. O da una scuola media di un quartiere a rischio.

Hanno provato a starci il meno possibile, giusto il tempo di raggranellare il punteggio necessario per poter poi chiedere il trasferimento. Il trasferimento dove? In un quartiere migliore, frequentato da studenti meno difficili, selezionati in classi più riposanti per i loro nervi.

Dove c’è più bisogno di insegnanti esperti, qualificati, preparati e motivati, spesso ci sono quindi insegnanti inesperti e in rapido transito. Oppure insegnanti mediocri, narcisi e inconcludenti come me, che s’improvvisano, o che forse un po’ sono costretti a improvvisarsi perché devono mettere insieme il pranzo con la cena.

«A proposito di cena», dice mia moglie, «cuciniamo qualcosa o hai di nuovo ingoiato le sottilette con tutta la plastica?».

La plastica deve avere effetti psicotropi, perché a me sembra di essere a un passo dalla matrice anti-sfrido: come facciamo a fare incontrare il quartiere del mio studente-tipo con gli insegnanti bravi e all’altezza di cui ha bisogno? Queste scuole-ghetto, alla fine, dove sono? Dove si trovano? Di solito sono dentro un ghetto più grande, il quartiere. E ogni volta che dentro a un ghetto si costruisce una nuova scuola-ghetto, i politici esultano: «Oggi questo quartiere degradato finalmente rinasce, prima questo era un dormitorio senza nulla, adesso invece c’è una scuola, un parco, un centro per anziani!». Sarà. Per quello che vedo io ogni mattina, mi sembra più che altro un modo per tenere là dentro chi da là dentro esce già molto poco.

La questione potrebbe stare allora a monte: le scuole sono prima di tutto edifici. Gli edifici c’è qualcuno che decide dove tirarli su. L’ubicazione di una scuola incide moltissimo sulla composizione delle classi. Forse allora gli edifici scolastici non andrebbero mai costruiti all’interno di un quartiere, ma sempre al confine tra due: uno centrale e uno periferico, uno buono e l’altro disgraziato, uno di case popolari e l’altro di
 palazzi nobiliari 6. Corro a scriverlo al ministro sul sito della Buona Scuola:

Gentile Ministro,

qua ci vogliono ancora più piccioli.

Però così sono troppo diretto, magari poi il ministro fa come mia moglie, si indispone e non mi risponde neanche. Riproviamo:

Gentile Ministro,

qua per riformare la scuola bisogna per forza rivoluzionare le città. Pensare a edifici liminali, da costruire o da ristrutturare in quei punti delle città dove i quartieri si incontrano.

Sì, va bene, ma alla fine che ne so io di urbanistica e progettazione
sociale? E poi ho di nuovo fame, meglio se torno di là in cucina.

«Ti va se ci facciamo un uovo per cena?», mi dice mia moglie.

«Un uovo? Un uovo come? Sodo?», dico io.

«Che ne so: sodo, al tegamino. Tu come lo vuoi?», dice lei.

«Fritto. Con la sottiletta sopra. Però senza plastica. Comunque tu l’hai mai visto Ovosodo?», le chiedo.

«Mi pare di sì, anni fa. Ma che c’entra?» mi fa lei spazientita.

«Quello che capita a Piero Mansani per sbaglio dovrebbe capitare a tutti per norma di legge», le dico. Poi mi addormento con la testa sul tavolo. 

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