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Nei tuoi panni? No, grazie

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Nei tuoi panni? No, grazie

Empatia: una parola ormai in bocca a tutti. È inspiegabilmente il fiero marchio di commistione tra scienze umane e scienze sperimentali, soprattutto in ambiti clinici e sociali. La cosiddetta medicina narrativa si regge solo sull’assunto che l’empatia sia qualcosa di reale. Un istrione come Jeremy Rifkin – e non lui solo - anela a una civiltà dell’empatia. Sic! Ma, secondo i contesti e di chi lo usa, il termine ha i significati più disparati, molti dei quali oscuri. Di cosa si sta allora parlando? Anche volendo limitarci alla ristretta accezione con cui compare nella letteratura specialistica, cioè la capacità di entrare in risonanza con le emozioni di un altro, l’empatia, noi pensiamo, non esiste. Certamente non per come l’hanno immaginata fenomenologi e psicoanalisti dalla sua comparsa, tardiva, nella storia del pensiero, con Robert Vischer e il concetto di Einfühlung nel 1873, ripreso dallo psicologo Theodor Lipps e tradotto con empathy dal britannico Edward Titchener. A seguire l’opera di Husserl e Edith Stein, Heidegger e Merleau-Ponty all’inizio del XX secolo, fino ai loro epigoni recenti.

Che l’empatia è un miraggio, l’ennesimo, ci preme comunicarlo soprattutto ai neuroscienziati, - loro più di altri avrebbero dovuto già capirlo! – e sconsigliarli dall’usare concetti filosofici “ad ombrello” solo perché di uso comune e dal tono erudito, quando sono in realtà ambigui e fuorvianti. Questo non vuol dire che neghiamo che ci si possa sintonizzare emotivamente, provare compassione, pietà, solidarietà, amore, etc. David Hume e Adam Smith a metà del Settecento identificavano in tutto questo la base della moralità e lo chiamavano simpatia, termine che nell’antichità indicava armonia cosmica e oggi ha un significato più vicino a gioia o attrazione per qualcuno, e che serve all’approvazione sociale (E. Lecaldano, Simpatia, Raffaello Cortina, 2013). Ma ciò che il concetto di empatia vorrebbe descrivere va oltre, significa superare se stessi per indossare i panni degli altri (è un sentire dentro, non un sentire con – si dice). Ma questo è qualcosa di impossibile. Oltre che non proprio desiderabile. Per quanto proviamo a immedesimarci in un pipistrello o in Bill Gates, la verità è che come è il loro mondo interiore per loro non lo sapremo mai. Ognuno di noi può immaginare qualcosa solo sulla base dei suoi ricordi e del suo sentire, che è l’incontro specifico tra geni, strutture neurali e esperienze individuali: non possiamo uscire da noi stessi. Ed è anche meglio non provarci, se si vuole evitare di farci o fare del male.

Sarà sempre il mio dolore, il mio piacere, il mio disgusto, pur evocato da quello che siamo in grado di leggere nell’altro. Perfino Stanislavskij e Strasberg – con buona pace per le chiacchiere a vuoto che oggi si fanno sull’empatia nelle rappresentazioni teatrali – la chiamavano memoria emotiva/sensoriale. Se siamo bravi attori, riusciremo a ingannarci al punto tale da ingannare gli altri, ma questa è un’altra storia. E c’è di più: quello che chiamiamo empatia può essere ben descritto dall’esercizio di una serie di altre capacità; ad esempio, regolazione emotiva e mentalizzazione. C’è poi chi sostiene come lo psicologo di Yale Paul Bloom (spesso anche su quotidiani di larga diffusione come il New York Times), o il filosofo Jesse Prinz, che neanche serve a farci comportare meglio, o che può addirittura essere moralmente controproducente. Come scriveva anche Hume, il contagio emotivo può portare sia al vizio sia alla virtù. Immaginate un medico che provi la stessa ansia di un paziente che sta per essere operato o la disperazione di uno che ha paura di morire: sarebbe un pessimo medico, perché questo potrebbe impedirgli di curarli. Averne compassione sì, provare simpatia nel senso di dare un segnale di apprezzamento e comprensione per la condizione, ma con una necessaria distanza. Per Bloom certe forme di rabbia, reazione tanto bistrattata, hanno effetti migliori e ci permettono di provare il senso di giustizia. Quindi perché non fare a meno dell’empatia?

L’empatia non si capisce neanche cos’è. Due disturbi lontanissimi tra loro testimonierebbero cosa significa esserne privi. Da un lato gli psicopatici - nelle forme più gravi serial killer, stupratori, cannibali - i quali sono in realtà bravissimi a capire intenzioni ed emozioni degli altri perché abili manipolatori e seduttori. Sanno anche fingerle, ma spesso si tradiscono. Fanno tutto ciò che è in loro potere per ottenere ciò che reputano piacere o guadagno. Se non ci riescono, se ne fregano di vedere soffrire. Tutto qua. Quello che manca loro, ci dicono le neuroscienze, è uno spettro di emozioni, tra cui paura e tristezza, che sono alla base di vergogna e senso di colpa. Dall’altro abbiamo chi è affetto da autismo, una grave forma di isolamento sociale, che non riesce a comprendere intenzioni e emozioni, non capisce i sottintesi, i giochi di parole e non conosce il «mondo interno» o non sa bene che farne; ha cioè problemi nella mentalizzazione, ma questo non lo spinge ad atti violenti (almeno non di regola). E se fossero questioni diverse? Le neuroscienze distinguono allora tra empatia cognitiva ed emotiva: agli autistici mancherebbe la prima, agli psicopatici la seconda. Circa dieci anni fa Simon Baron-Cohen and Sally Wheelwright concepivano un celebre Test di Quoziente Empatico. L’empatia cognitiva sarebbe la capacità di spiegare e interpretare le emozioni degli altri, praticamente la teoria della mente (ne avremmo un’altra per i pensieri?). L’empatia emotiva permetterebbe invece di condividere le emozioni di un altro. Queste due capacità, una di contagio emotivo l’altra conoscitiva-riflessiva, si ritiene condividano strutture neurali, come l’insula anteriore sinistra, ma che dipendano anche da aree più specifiche: più limbiche quella emotiva, più frontali la cognitiva. La correlazione con i comportamenti specifici e le risposte ai compiti psicologici che dovrebbero rilevarle non è chiara. Il legame con socialità e altruismo ancora meno. Le persone a volte si comportano perfino in modo più altruistico del previsto, perché sacrificano più denaro per ridurre il dolore provocato da scariche elettriche a sconosciuti, che a se stessi (Crockett et al., PNAS, v. 111, n. 48, 2014). Anche in maniera imperfetta e instabile, però quanto più il contesto è incerto, tanto più tendono a dar peso al dolore degli altri. Se prendiamo un antidepressivo, poi, danneggiare gli altri ci è maggiormente inaccettabile.

Dobbiamo dunque impietosirci per essere più morali? Per Adam Smith, pietà e compassione non servono, né il mero contagio emotivo è sufficiente. La simpatia è il segnale di approvazione dell’altro. E almeno da Galeno fino ai primi classici di etica medica di fine Settecento la simpatia era la principale qualità morale richiesta a medico nei riguardi del paziente. E ancor più, simpatizzare è un patto reciproco, in cui ci si riconosce e si mette in gioco la fiducia. Bastano 100 millisecondi per fare questa scelta con uno sconosciuto. La fiducia, però, è un gioco delle parti, e non è stare sullo stesso piano. Tanto più se con figure a cui affidarsi, come familiari, medici o avvocati. Sull’efficacia e sui risultati, va detto, non ci sono per niente garanzie. E questo perché notoriamente esageriamo nel credere che gli altri pensino e sentano proprio come noi.

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