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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2015 alle ore 08:15.

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All’interno del più generale processo di riduzione dei finanziamenti alla ricerca, le discipline umanistiche hanno sofferto proporzionalmente di più. Per questo è interessante esaminare alcuni recentissimi contributi internazionali sulle humanities. Il libro di James Turner è un tour de force nella storia delle discipline umanistiche dall’origine ai nostri giorni. L’idea di fondo è che esiste un approccio comune sottostante a tutte le discipline, rappresentato dalla filologia. La circolazione dei testi di Omero nell’antichità, la creazione della biblioteca di Alessandria in età ellenistica, la riproduzione manuale dei manoscritti, la fissazione dal canone biblico in ambito ebraico e cristiano, la riscoperta dei manoscritti antichi nel Rinascimento italiano, infine la invenzione della stampa e la diffusione del libro generano ripetutamente problemi intellettuali formidabili: qual è il testo autentico? è possibile identificare con precisione l’autore, le diverse tradizioni manoscritte, le varianti, le manipolazioni introdotte successivamente, gli errori? Turner mostra come la soluzione rigorosa a queste domande, sviluppata dalla filologia, abbia influenzato in modo decisivo i metodi di indagine delle altre discipline umanistiche, come la storia e la storia dell’arte, la linguistica e la critica letteraria. Con 65 pagine di note e 54 di referenze si naviga in un mare di erudizione.

Un altro eccitante viaggio intellettuale è offerto dal linguista olandese Rens Bod, con una storia comparata nelle principali aree del mondo (Europa, India, Cina), dall’antichità al XX secolo, in linguistica, storiografia, filologia, musicologia, storia dell’arte, logica, retorica e poetica. Bod mostra in modo convincente che sono esistiti fin dalla antichità filoni di indagine umanistica che hanno perseguito la ricerca di leggi generali che governano il funzionamento del linguaggio, dei testi o della storia, in modo del tutto simile alle scienze naturali. In alcuni casi, come nella grammatica universale e nella logica, con enorme successo, in altri casi, come nelle ricorrenti teorie dell’alternanza dei cicli storici, con risultati superati o discutibili. Ma sempre con guadagni importanti dal punto di vista del metodo e delle acquisizioni storiche. Il libro è un importante contributo alla ridefinizione dei rapporti tra humanities e scienze, che faccia superare il vecchio dibattito sulle due culture.

l libro di Helen Small, docente di Inglese a Oxford, e i contributi raccolti da Peter Brooks, emerito di Letteratura comparata a Yale, e da Belfiore e Upchurch, docenti di politiche culturali a Warwick e Leeds, rispondono alla esigenza di giustificare la ricerca umanistica in contesti, come quello inglese o americano, in cui sono stati tagliati i finanziamenti pubblici (in Inghilterra nel 2010 il governo ha tolto i fondi solo alla ricerca umanistica, lasciandoli per le altre discipline!) o chiusi numerosi dipartimenti. Lo fanno però senza vittimismo e piagnisteo, ed evitando allo stesso tempo la mortificante adesione a un paradigma economicista («la storia dell’arte contribuisce al PIL in quanto sostiene l’industria turistica»). Al contrario, articolano in modo puntuale la specificità dei metodi di indagine umanistici e i valori di verità della conoscenza generata, con orgoglio scientifico motivato. Quando sono fondate sul metodo filologico e le sue derivazioni, le discipline umanistiche presentano un rigore che non ha niente da invidiare al metodo scientifico. La differenza è di metodo, non di rigore. Nelle scienze dure si assume la invarianza dei fenomeni osservati, per cui è possibile replicare gli esperimenti nel tempo e nello spazio, e i valori di verità sono determinati dalla rappresentatività delle osservazioni e dalle misurazioni. Nelle discipline umanistiche si indaga il passato, che per definizione non è replicabile. Non esiste alcun “universo” invariante all’interno del quale si possano campionare le osservazioni. In linea di principio occorre esaminare un testo o un’opera d’arte alla luce di tutte le manifestazioni culturali dello stesso periodo e di tutti i testi o le opere precedenti con i quali l’autore si è verosimilmente confrontato. Una operazione di per sé infinita, all’interno della quale si danno criteri di adeguatezza (spesso basati sulla ineliminabile erudizione), ma non di valore statistico. Inoltre mentre nelle scienze dure è la scienza che detta il linguaggio formalizzato in cui interrogare la natura, la quale si offre ai sensi in modo informe, le discipline umanistiche studiano oggetti (testi) che si presentano già strutturati in forme linguistiche (scritte, visuali, plastiche, architettoniche etc.).

Per sua natura, il testo non ha mai una interpretazione univoca, come accade con i linguaggi formali delle scienze dure. Una lezione che si ricava da questi studi è che se le discipline umanistiche vogliono (ri)prendere il ruolo che ritenevano di avere in passato nella accademia e nella società, devono spiegare con precisione i loro metodi di indagine e rivendicarne il rigore. Questo deve avvenire sia rispetto agli studiosi delle scienze dure e tecnologiche, che rispetto alla società nel suo insieme. Invece di sottrarsi con sussiego alla richiesta della società di capire il valore della ricerca e dell’educazione umanistica (anche quando questa richiesta viene avanzata in modo rozzo) occorre spiegare e ancora spiegare. Il richiamo alla tradizione umanistica italiana, in un contesto culturale in cui l’esistente ha perso legittimazione, non funziona. Occorre ri-legittimare in modo discorsivo e riflessivo, pacato e convincente. Invece che limitarsi a perorare l’inutilità della ricerca umanistica o ad avanzare la richiesta di non sparare sugli umanisti, gli studiosi potrebbero fare qualcosa di più. All’estero, soprattutto nel contesto anglosassone, dove sugli umanisti hanno sparato davvero, ritenendoli inutili, si trovano spunti interessanti.

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