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La vite «combattiva» dell’Irpinia e l’umiltà di…

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La vite «combattiva» dell’Irpinia e l’umiltà di chiedere aiuto

Domenica scorsa ci siamo levati di buon mattino e abbiamo raggiunto Sorbo Serpico, a un tiro di schioppo da Atripalda, nella bassa Irpinia, perché avevamo preso l’impegno con Pellegrino e Silvia Capaldo di fare una visita, promessa da anni, ai loro vigneti e a quel “pezzo di terra e uomini” che mettono insieme un’azienda (la “Feudi di San Gregorio”) e una comunità di contadini, pane nero e olio con minimalismo giapponese e giardino pensile, rossi e bianchi di qualità con salumi e formaggi tipici, qualcosa di moderno e antico allo stesso tempo. Ci accoglie un friulano innamorato dell’Irpinia, Pierpaolo Sirch, al quale il professor Capaldo ha consegnato le chiavi dell’azienda, e ci conduce attraverso la cantina scavata sotto la strada fino al vigneto. «La vede questa gemma? Io la guardo e capisco che grappoli farà tra un mese. Noi vinciamo nel mondo con il territorio, qui l’ambiente, l’uomo, sono il capitale più importante, mi sembra di tornare ai cipressi e ai muretti a secco del mio Friuli, mi sembra di tornare a quando ero bambino perché qui c’è ancora il contadino e il gusto della fatica, e poi il clima è difficile e quel contadino deve interpretare la giornata, deve decifrare il cielo».

Parla con gli occhi e il suo accento friulano, quest’uomo che ha la stazza di un pivot di una squadra di basket, è un fiume in piena: «L’altro giorno ho trovato una vite di Fiano nel bosco alta tre metri e non so quanti anni possa avere, ma quando si vedrà il frutto, l’uva che produce, allora si capirà che non c’è confronto non solo per l’età ma anche per l’equilibrio raggiunto che è diverso dalle selezioni che puntano alla quantità non alla qualità. La forza di Feudi non sono i nostri trecento ettari, ma sono tutti gli agricoltori che producono uva e la vendono a noi, questa è la nostra forza». Passiamo da una cantina all’altra, una distesa di botti e molto altro, a un certo punto spunta un presepe dell’abbazia del Goleto di un maestro-artigiano di Ariano Irpino, nell’aria musiche di Carlo Gesualdo, un bar minimalista giapponese con un bancone illuminato dall’interno, pavimento di resina nera, poltroncine rosse di Vignelli, tavolate e armadi frigo, magazzini modernissimi e un odore di terra e di uva che ti restano dentro, la bottaia. «Ho passato più di cinque anni a scovare, di vigneto in vigneto, le vecchie viti che portano con sé la differenza genetica del territorio rispetto alle selezioni di oggi» ripete l’amico friulano che ha scelto l’Irpinia e il professore annuisce, poi si gira, e mi fa: «Non abbiamo dovuto neppure penare tanto per convincerlo a restare qui, la verità è che lui dell’Irpinia si è proprio innamorato».

Nella sala ristorante, dopo il giro in azienda, mi affaccio dalla finestra e sento l’aria fresca dei cinquecento metri di altezza di un’Irpinia che ben conosco, rivedo le vallate piene di verde e i tetti rossi, mi rigiro e gli occhi mi cadono sulla cucina a vista, pareti di vetro, bottiglioni e “colonne” trasparenti di tappi di sughero, la Falanghina, il Greco di Tufo, il Fiano di Avellino, e il rosso Serpico delle vigne secolari di Taurasi, e poi mi perdo tra Serrocielo, Cutizzi, Pietracalda, Piano di Montevergine, sono tutte selezioni e “riserve” d’oro della vite “combattiva” dell’Irpinia in un territorio complicato. Serve il giardiniere della vigna, sussurra qualcuno, Silvia e il Professore fanno segno di sì con la testa («ne abbiamo un bel po’ di questi uomini della terra, lasciamoli scegliere le viti dove possono e come vogliono») e aggiungono: l’importante è investire qui, nelle pieghe di una terra ispida ma sana, come i suoi formaggi di Carmasciano. Guardo Silvia, che è bolognese, ma a Sorbo Serpico si trova a casa sua, e sento che dice: «Qui si vince perché tutti si sporcano le mani, e forse Pellegrino mi sembra più normale, non ha mai voluto un telefonino e resiste ancora, nel silenzio della vallata e dei giardinieri della vigna me ne faccio una ragione, fuori mi resta incomprensibile». Quest’uomo ne ha viste di tutti i colori ma ha sempre trovato qualche minuto per rincuorarmi nei giorni della mia disoccupazione, ha vissuto la stagione della finanza con i principi sani dell’economia reale e il retrogusto della fatica contadina, lo cerco e vedo che sorride divertito, perché in fondo le “annotazioni” di Silvia lo raccontano per quello che è, un professore di economia aziendale che vuole vincere la battaglia globale della modernità con la forza antica della buona vite e la passione del contadino delle sue terre. Quando mi saluta, parla a voce bassa e dice: «Si ricordi, il Paese ha bisogno di pace, basta con populismi e demagogie, basta mettere i ricchi contro i poveri, abbiamo bisogno di unire le forze, occupiamoci meno di comunicati stampa e più di fare le cose con l’umiltà di chiedere aiuto alle persone capaci». Anche qui, a casa sua, il Professore ha dimostrato che le cose si possono fare, tira un vento piacevole che alleggerisce la morsa del caldo e mi restituisce i colori e i sapori di una terra combattiva dove la gente non è abituata a chinare la testa ma a pesare uomini e fatti.

roberto.napoletano@ilsole24ore.com

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