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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2015 alle ore 08:14.

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Sapete perché il “servizio”, nel tennis, si chiama così? E perché in inglese si dice deuce per dire “parità”? E cosa c’entra love con “zero”? Come si comporta l’arbitro se un pallonetto viene intercettato da un piccione che ne devia la traiettoria? A queste, e molte altre domande, troverete una risposta in un posto dove gli appassionati di tennis, una volta nella vita, devono andare: il museo di Wimbledon. Varcati i cancelli che portano nel cuore del circuito più prestigioso del mondo, e vinta la tentazione di fare subito incetta di qualunque oggetto e cimelio verde o viola - i colori dei campionati - nel negozio, ecco le scale che introducono nella Storia del tennis. Il museo ha una struttura classica (teche, reperti, abiti, ricostruzioni ambientate) e il racconto è cronologico, ma non mancano le diavolerie contemporanee, dai sistemi touch screen ai giochi che coinvolgono i visitatori.

Badminton, real tennis e croquet sono gli sport antesignani del tennis, e il volto malinconico di Guillaume Barcellon, costruttore di racchette alla corte di Luigi XV ritratto da Etienne Loys nel 1753, quando il tennis era ormai lo sport praticato dai re di tutta Europa, lascia immaginare accanite partite tra aristocratici. Già due secoli prima, del resto, sembra che Enrico VIII stesse giocando un match mentre Anna Bolena veniva giustiziata. Certo, gli ortodossi sono rapiti dalla coppa del 1877, la Field Cup, il trofeo della prima edizione: inutile dire che quel giorno pioveva, il biglietto d’ingresso costava uno scellino e le 200 persone che lo comprarono finanziarono così l’acquisto del rullo per il prato che si era rotto (questa era la nobile ragione che mosse gli organizzatori a prevedere la competizione).

La stanza vittoriana, epoca in cui il tennis era assai di moda, è una festa per gli occhi, l’ambiente è ricreato con amore per ogni dettaglio. Chi avrà bevuto il tè in quelle tazze con le racchette? O usato le pinzette per prendere il limone e i cucchiaini, sempre a forma di racchetta? Anche il porta toast o il porta sigari, su una tavola riccamente apparecchiata, sono ispirati al tennis. Quando si entra nel Novecento, però, si inizia a fare sul serio. Intanto si capisce perché Suzanne Lenglen era soprannominata “la divina”: una che scendeva in campo in pelliccia. E poi vinceva, vinceva e vinceva, era la più grande del suo tempo, dal 1919 al 1925 non l’ha battuta nessuna. Accanto alla sua ci sono le descrizioni degli altri protagonisti di quegli anni, con gli abiti lunghi e candidi, le strette racchette di legno, gente come René Lacoste, Bill Tilden e più avanti, negli anni Trenta, Fred Perry.

«Nel 2014 abbiamo avuto 92mila visitatori», dice con orgoglio Anna Renton, giovane curatrice del museo. «Sono venuti più di 4.700 italiani; dopo britannici, americani, indiani e australiani sono i più presenti». Renton racconta che le sale sono state inaugurate nel 1977, anno del centenario del torneo, dal duca di Kent e grazie alla donazione di Tom Todd, che mise a disposizione le sue preziose collezioni. «Ovviamente nel tempo si sono arricchite - spiega Anna - perché anche molti giocatori hanno contribuito e tuttora offrono sempre qualcosa. Loro stessi vengono qui. Ricordo quando Nicolas Mahut chiamò John Isner per dirgli “ehi, siamo in un museo”...», conclude con un sorriso. Il riferimento è alla partita più lunga della storia di Wimbledon, durata più di 11 ore tra il 22 e il 24 giugno del 2010, nella prima settimana sul campo 18, e finita 70 a 68 al quinto set per Isner. Le fasi di questa maratona sono ovviamente illustrate in una serie di pannelli, e a far da contraltare c’è un record di 22 secondi: non si è per ora impiegato di meno per coprire il campo centrale nel caso, probabile come ahimè tutti sanno, di pioggia.

Prima di imbattersi nei volti di Mahut e Isner, però, c’è una lunga carrellata di personaggi, abiti, voci e situazioni ben più conosciuti. Siamo agli anni Settanta, Ottanta e Novanta, con Connors, Borg, McEnroe, Edberg fino ad arrivare alle battaglie di Agassi e Sampras, si riconoscono e rivivono momenti per cui si è sobbalzati su una sedia, gridato assieme agli amici, tifato pensando “vorrei essere lì”. C’è un touch screen con una serie di video che mostrano gli scambi e i punti più belli di tante sfide: Chris Evert contro Martina Navratilova, Agassi contro Sampras appunto, Becker contro Edberg... Difficile staccarsi, davvero. Non è come stare davanti a un computer a navigare e a cercare le stesse immagini, come qualcuno potrebbe obiettare: sei a Wimbledon, l’acme del tennis, immerso nella qualità e nella ricercatezza. La stessa ricercatezza che ti fa scegliere per gioco, tra diverse racchette di legno apparentemente simili disposte in una ruota, e scoprire di aver beccato la Dunlop Maxply midsize di McEnroe. O la stessa qualità che, su un fronte più serio, mette a disposizione 8.500 pubblicazioni tra libri, giornali, video e dvd sul tennis mondiale. Basta prendere un appuntamento con Audrey Snell, l’assistant librarian, dietro la porta a vetri che conduce nella biblioteca: «È un posto unico, non ce ne sono altri così», dice con aria fiera, nel silenzio sacrale tipico di quelle stanze. «Vengono studenti, giornalisti, ragazzi che fanno ricerche, autori di libri. Qui si preserva la memoria del tennis».

E Federer, Djokovic, Nadal, Venus e Serena Williams, Sharapova sono già storia, se è vero che il museo si chiude con le loro imprese nell’ultimo quindicennio. Molti di loro, compresa la Kvitova dopo il successo dello scorso anno, hanno donato il loro completo (ma si sosta inevitabilmente più a lungo davanti alla stanza dedicata a Mac, dove c’è lui - John - riprodotto a figura intera assieme a una quantità di memorabilia, e ci si ricorda di quando proprio a Wimbledon nell’81 urlò all’arbitro «You cannot be serious!»). Prima di uscire, colpisce una frase di Rafael Nadal, pronunciata nel 2011: «Se non perdi, non puoi goderti le vittorie». Quell’anno era il campione in carica, fu sconfitto in finale da Djokovic.

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