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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2015 alle ore 08:13.

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Bianchi parallelepipedi identici nel formato, disposti a catena, si susseguono per chilometri con effetto fantascientifico. Sono edifici a quattro piani, vanto dell’avveniristica architettura della prima città del Brasile (auto)proclamatasi, non a torto, ecosostenibile.

Al lato opposto della collina palpita una fitta foresta in cui la flora prealpina s’intreccia con quella tropicale denunziando i mille metri d’altitudine di Curitiba. In mezzo, oltre a un torrente nascosto da fitto fogliame scorrono parallele, ideale giunzione tra natura e cultura, due vie: una sede stradale abbastanza larga da ospitare il metro bus, il sistema di trasporto inventato da Oscar Niemeyer, e una vecchia ferrovia a scartamento ridotto, recentemente recuperata per il piacere dei turisti ma anche per il trasporto di legname. Entrambe annunziano con la loro pendenza il declino dell’altipiano verso l’Atlantico e allontanano idealmente la gens moderna dall’antica città coloniale e ancor più dagli insediamenti europei – latini, germani e slavi – che si sono stabiliti a più riprese a partire dalla fine dell’Ottocento sull’altro versante della città .

Chi s’imbatte in questo enorme quartiere che nega l’idea stessa di periferia a vantaggio di un’estensione urbana centripeta non può fare a meno di domandarsi cosa faranno, dove lavoreranno le decine e forse le centinaia di migliaia di uomini e donne che vivono in quelle case ordinate, pulite, dotate di raccolta differenziata di rifiuti all’insegna del “ridurre, riusare, riciclare”. Il fatto è che Curitiba, ottava città metropolitana del Brasile, a lungo in testa alle classifiche del Pil nazionale, ha saputo avvantaggiarsi del recente sviluppo economico favorendo l’affermazione di un ceto medio in cui confluiscono operai specializzati e impiegati, piccoli commercianti e insegnanti che da quelle bianche costruzioni si distribuiscono su di una vasta area ricca di fabbriche e di botteghe, di scuole e di uffici diffusi sul territorio a macchia di leopardo in modo da evitare ghetti e borgate. Non ci si deve quindi meravigliare se il profilo di laboratorio politico assunto da Curitiba ne ha fatto la sede di rivendicazioni sociali e culturali come dimostra il movimento di protesta degli insegnanti che qui ha trovato radicamento e espansione.

All’insegna dell’ecologia e della cultura, ambiti generalmente considerati non rentables, le amministrazioni della città hanno promosso attività municipali impensabili solo a pochi chilometri di distanza. Su grande scala e piccola: sempre con la filosofia del bottom-up inaugurata già negli anni Settanta dal pioniere Jaime Lerner, architetto e urbanista, prima che sindaco. Sicché, attraversando gli ampi viali che rivelano l’adeguamento del tessuto stradale alle persone invece che ai mezzi privati di trasporto, non è difficile imbattersi in anziani prelevati dalle residuali favelas e coinvolti, grazie a antichi saperi, nella piantagione di alberi o in lunghe teorie di chiassose scolaresche accompagnate a visitare la rete museale o l’antica stazione per metà trasformata in galleria commerciale e per l’altra in museo ferroviario, memoria di un passato (grandioso per l'ingegneristica progettualità ma anche luttuoso per la grande quantità di vite sacrificate) che si vuole trasformare in principio di identità cittadino.

Il nome ha in portoghese il suono dolce di un invito, ma sarebbe sbagliato confondere Curitiba (leggere con la t palatale) con altre città brasiliane che trovano sempre il modo di ammiccare al viaggiatore. Il suo centro storico dove immancabilmente si sbarca, è tutt’altro che invitante: Curitiba è vittima infatti del paradosso che ha visto come effetto dello sviluppo economico la distruzione del tessuto architettonico coloniale barocco, fatto di palazzi, chiese e teatri. Se in aree depresse questo tessuto è rimasto, magari, ferito, sbiadito, offeso dal ritorno della natura (sono indimenticabili i settecenteschi edifici trapassati da arbusti, tipici del Nordeste), nella capitale del Paranà resistono solo poche vestigia, appena visibili fra aggressive costruzioni moderne precedenti la new wave amministrativa: il progresso ha insomma divorato, con malcelata voluttà, i segni del passato. Uno stridente contrasto destinato a scomparire quando – la sera e i giorni di festa - il centro, zona pedonale da tempo immemorabile (anteriore al celeberrimo Pelurihno di Salvador de Bahia), si riempie di una moltitudine di genti che ben rappresentano quell’intreccio razziale e culturale più volte portato a esempio da Obama per l’auspicata integrazione statunitense.

Come fa notare un giovane insegnante, è però più difficile incontrare qui quelli delle comunità ricche, “os europeus” che hanno fatto delle verdi colline dell’altipiano dei discreti rifugi nazionali non impenetrabili ma comunque fortemente segnati da culture che essi s’adoperano a preservare: dall’architettura all’arredo urbano. Angoli di Baviera, di Galizia, spuntano qua e là sempre annunziati da chiese e campanili che richiamano nelle esagerate cupole e guglie lignee i panorami antichi della vecchia Europa (unica eccezione: gli italiani di Santa Felicidade, folcloricamente integrati). “ Se si pensa che, diffusa nella città, vive una comunità ebraica presente da sempre ma fortemente incrementata negli anni del nazismo si capisce che molte persone che commerciano e si frequentano giornalmente non si parlerebbero nemmeno se conoscessero le vicende dei loro avi.” A parlare è un altro insegnante giunto a Curitiba (città con il maggior numero di docenti e il minor numero di analfabeti) per partecipare alla protesta.

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