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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2015 alle ore 08:13.

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Quando morì Bernardino Zapponi, un caro amico, autore di bei racconti pieni di humor e ardito sceneggiatore (Roma e il Satyricon di Fellini, per esempio, ma anche Il marchese del Grillo di Monicelli e varie commedie brillanti a sfondo sessuale), la moglie gli mise tra le mani, nella camera ardente, non un rosario ma una copia di Tre uomini in barca, l’ultimo libro che stava rileggendo, forse anche per dimenticare il suo male. Da sempre, la letteratura umoristica ha avuto una funzione “curativa”, lenitrice dei duri affanni dell’esistenza. Ma parlo proprio di letteratura umoristica, e non di letteratura comica, di letteratura comico-grottesca, di letteratura comico-fantastica e tanto meno di letteratura sarcastica. Anzi, il contrario della letteratura umoristica è la satira, in specie quella politica, raramente umoristica “cattiva” perché partigiana e dunque sempre o quasi sempre aggressiva. Tanti anni fa, si potevano incontrare su un noto quotidiano, a distanza di poche pagine, le aeree vignette di complice presa in giro degli intellettuali di Pericoli e Pirella (ricordate? “tutti da Fulvia il sabato sera”…) e quelle politiche di Forattini, che erano tutto il contrario.

Allo humor deve appartenere la leggerezza, e se non ce l’ha non è humor. In anni ancora più lontani, addirittura in tempo di guerra, uscì da Rizzoli un’ampia antologia di umoristi italiani di quel tempo – quelli, per intenderci, dei settimanali alla «Marc’Aurelio», su cui si esercitavano, pronti ad affrontare il Dopoguerra, non solo i vecchi del mestiere come Campanile, Manzoni, Guareschi, ma anche gli Age e Scarpelli, gli Scola e Maccari, i Fellini e Pinelli, gli Steno e Monicelli, i Metz e Marchesi che dettero poi lustro al nostro cinema, e a cui mandavano i loro primi componimenti, per esempio, Del Buono e Calvino. Bene, quel libro si intitolava Ridi poco, un titolo che esprimeva una filosofia. Era certamente dettata dalle circostanze – c’era poco da ridere, in quel tempo, e lo dimostrò il più grande editore italiano dei “Classici del ridere”, anche del ridere più franco e smodato, il parmense Formiggini che si suicidò, ebreo, al tempo delle leggi razziali… – e però le oltrepassava collegandosi spontaneamente alla scuola dei grandi umoristi dell’Ottocento e a quella del Novecento, al Circolo Pickwick o ai primi racconti di Čechov, a Dorothy Parker o al suo compare James Thurber… Per rendersene conto, basta riprendere in mano, purtroppo accessibili solo in biblioteche, le due grandi antologie garzantian-bertolucciane degli Umoristi dell’Ottocento e del Novecento, che attraversavano serenamente il tempo e lo spazio.

In cosa dunque si è distinta e si distingue la letteratura umoristica del passato e di oggi (e penso al suo rappresentante italiano più costante, più elegante e meglio intenzionato, Stefano Benni, degno erede di cotanto passato) dall’altra letteratura? Che cosa, per esempio, tiene insieme i testi che l’iniziativa del «Sole» offre ai suoi lettori?

Vi si ride, ieri e oggi, di noi – dei nostri piccoli modi di vivere le complicazioni del presente, la famiglia, il lavoro, i vicini, i superiori, il contesto politico, gli incontri imprevisti, le cattive sorprese imprevedibili. In un capolavoro assoluto dell’umorismo europeo che regge il confronto perfino con Dickens, e che è quest’anno tornato di attualità per via di un tragico anniversario, Le avventure del buon soldato Švejk durante la Prima guerra mondiale raccontate da Jaroslav Hašek, è la meschinità del quotidiano a dominare, ma anche le astuzie con cui nel quotidiano vi si reagisce, i modi di comportarsi dei miti e indifesi di fronte ai prepotenti nelle difficoltà di ogni giorno, anche quando ogni giorno mette in forse la sopravvivenza dei nostri anti-eroi. Anche la politica vi ha il suo peso, e il capolavoro di Graham Greene sulla Cuba del dittatore Batista lo dimostra, ma soltanto nel racconto delle ulteriori difficoltà che pone alla vita di persone comuni, pacifiche. In uno dei più bei racconti del Novecento, La bilancia dei Balek , il più bello dei bellissimi Racconti umoristici e satirici di Heinrich Böll e il più “politico”, è alla fine l’astuzia di un bambino, un piccolo Švejk in azione candido e acuto, a vincere sull’acre destino di una famiglia sottoposta a un potere che bara, come forse barano tutti i poteri…

Si tratta, nei volumi del «Sole», di casi eccezionali. Vi dominano invece i casi della vita quotidiana, diciamo così, dei tempi di pace, le pene o le disavventure che ci riserva ogni giorno, ma viste, per nostra fortuna e per nostro divertimento, nei loro risvolti non drammatici, non angoscianti. Le piccole ironie della vita, le chiamava Thomas Hardy, e i modi con i quali personaggi del tutto comuni, di solito nient’affatto preparati alla bisogna, hanno di affrontarle o di subirle. Un giovane d’oggi le chiamerebbe “le sfighe”, anche se non si direbbe che tra i giovani d’oggi abbondino gli umoristi, nonostante la scuola di «Linus», nonostante Carlo Verdone e il citato Benni.

Per questo sembra stonare, almeno a prima vista, la presenza tra i gioielli del “genere” più o meno tranquilli, lievi, distaccati, dotati di una leggerezza che non è mai superficialità ma semplicemente il contrario della pesantezza, un piccolo classico moderno o pre post-moderno come La legge di Murphy di Arthur Bloch, un testo da rivalutare, acre e a tratti di un pessimismo che può sembrare perfino sgradevole, oggi più di ieri perché oggi ci appare più motivato di ieri. Lo giustifica però appieno una delle sue “leggi”, quella che dice, cito a memoria, che se una cosa potrebbe anche andar male, sicuramente andrà male. Ce lo conferma la cronaca quotidiana del Pianeta Terra. Si ride giallo, oggi, ed è bene ridere poco, oggi più di ieri, perché, lo sappiamo bene, c’è poco da ridere. Ma ci si rivolge agli umoristi proprio per questo, per ridere un poco, nonostante tutto, per andare avanti. Nonostante tutto.

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