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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2015 alle ore 08:15.

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Sembra proprio che abbiamo un appuntamento ricorrente con il problema degli intellettuali. Quando ci si ricorda di loro è per prenderli di mira e processarli, per chiedersi dove sono finiti, perché tacciono, perché non mobilitano e non orientano l’opinione pubblica. Badano solo a se stessi? Sono in decadenza? Sono spariti?

La prima risposta, la più ovvia, potrebbe essere questa: come tutte le realtà sociali, gli intellettuali sono sempre lì e sempre in metamorfosi, spariscono e ricompaiono, parlare di loro sembra all’improvviso doveroso e poi improvvisamente noioso. La cosa più certa è che sono il più delle volte proprio loro a parlare di sé e a sembrare a se stessi sia interessanti che noiosi. Per darsi importanza si assegnano compiti fondamentali. Ma per sentirsi liberi, rifiutano di avere doveri speciali. La cosa esasperante è che questi opposti non si escludono. Perché un intellettuale si impegni, deve essere anzitutto libero di farlo o di non farlo.

Purtroppo gli intellettuali hanno una lunghissima storia e questo li suggestiona: fra le loro specialità c’è infatti quella di tramandarla. Sono stati sacerdoti e scribi, maghi e sapienti, poeti e filosofi, eremiti o consiglieri del re, direttori di coscienza e cortigiani, custodi dell’ordine o ribelli, privi di potere o in cerca di potere, pedagoghi, liberi pensatori, scrittori impenetrabili o portavoce del popolo. Infine, più recentemente, li incontriamo in veste di tecnici e burocrati, accademici e addetti alla comunicazione, manager e star mediatiche. Se il repertorio è così ampio, c’è posto per tutti. Il tecnico può sovrapporsi al mago, il filosofo alla star mediatica e il cortigiano diventa manager. Gli intellettuali sono dovunque, eppure ci chiediamo dove sono.

In un equilibrato pamphlet, Enzo Traverso si chiede appunto questo e fin dal titolo mette in azione l’allarme: Che fine hanno fatto gli intellettuali? (ombre corte, Verona, pagg. 103, € 10,00). La domanda è familiare, ma la parola “fine” è sempre preoccupante. Da storico del Novecento, docente prima in Francia e ora negli Stati Uniti (Cornell University di Ithaca), Traverso riprende in esame le diverse fasi dell’impegno politico degli intellettuali nel corso dell’ultimo secolo. La vicenda considerata è quella che va dall’affaire Dreyfus e dal «J’accuse» di Zola fino al 1989, al crollo del comunismo, all’eclisse delle utopie e allo sconcertante inizio del nuovo millennio. Al centro del quadro ci sono lo scenario francese affollato di vedettes (in apparenza un modello, in realtà un’eccezione), le ideologie novecentesche, lo scontro tra fascismo e antifascismo, totalitarismi e democrazie, e infine la trasformazione degli intellettuali in esperti di governo.

Per discutere o solo riassumere le cento pagine di Traverso ce ne vorrebbero altre cento. Trovo poco da obiettare alle sue osservazioni e valutazioni: è sulla necessità di nuove utopie che ho i dubbi maggiori. Ma naturalmente, ognuno ha un modo tutto suo di vedere la questione. Vorrei comunque ricordare il grande equivoco, durato dal 1945 al 1980 circa, secondo cui il vero intellettuale è sempre e deve essere “in qualche modo” di sinistra, sempre innovatore, sempre aperto alla società e sempre rivolto al futuro: mai conservatore, né reazionario, antiprogressista, antimoderno e magari misantropo. Sembra incredibile, ma per decenni si è stentato a riconoscere che almeno la metà dei più influenti, prestigiosi e anche impegnati intellettuali del precedente secolo non sono stati semplicemente anticomunisti, ma nostalgici del passato, critici radicali della modernità, del liberalismo, della democrazia e infine della società di massa. D’Annunzio, Thomas Mann, Croce, Pirandello, Valéry, Pound, Eliot, Céline, Ortega, Heidegger, Gentile, Gadda, Borges... La gamma va da un moderato conservatorismo liberale al fascismo ideale o pratico. Tuttavia, anche una parte dei marxisti e degli anticapitalisti sono stati, nello stesso tempo, critici della modernità e dell’idea di progresso (anche in nome della rivoluzione). Autori come Benjamin e Bataille, Horkheimer e Adorno, Orwell e Auden, Simone Weil e Camus, Chiaromonte e Pasolini sono stati criticati sia da destra che da sinistra.

Nei rapporti con la politica, più che sulla categoria di intellettuali insisterei sulla varietà e imprevedibilità dei comportamenti individuali. Esistono diversi tipi di impegno: quello direttamente politico, fra esercizio del potere e dichiarazioni di appartenenza, quello teorico e critico, quello pedagogico e comunicativo. Lo scienziato e l’artista sono risultati spesso a disagio, a volte sprovveduti, a volte strumentali e in cerca di protezione, nei loro rapporti con la politica, con le ideologie, con la comunicazione pubblica. La casistica è comunque varia. Orwell, grande scrittore politico, non ha influenzato nessun partito. Gentile, idealista dell’attivismo, è stato soprattutto un fondamentale ministro fascista. L’influenza politica di Gramsci, dirigente comunista, è stata prevalentemente postuma e più culturale che politica. Quella di Carl Schmitt è invece finita con il Terzo Reich, anche se più tardi è ricomparsa in qualche filosofo teologizzante e metacomunista. Restando in Italia, è difficile confrontare e valutare con gli stessi criteri l’impegno politico di intellettuali come Bobbio, Fortini, don Milani, Basaglia, Pasolini, Lucio Colletti o Toni Negri.

A volte il rapporto con la politica si è espresso più efficacemente soprattutto come critica e rifiuto della politica. La categoria di intellettuale appare comunque generica e non tiene abbastanza conto di due aspetti: da un lato, la rilevanza sociale e politica di ogni particolare tipo di cultura e ramo del sapere (scienza, arte, filosofia, organizzazione, comunicazione) e dall’altro, i moventi e le storie individuali. In alcuni casi l’intellettuale si è impegnato soprattutto come singolo e prendendo le distanze dalla propria categoria. In altri casi ha elaborato strategie e tattiche di autopromozione di gruppo presentandosi come leader di corporazione e di ceto. A volte l’impegno è politico, altre volte è sociale, e certo non si può escludere che sia puramente culturale. Non è raro il caso, poi, che gli intellettuali più capaci di suscitare scalpore siano i peggiori. Mentre gli insegnanti di scuola primaria, i medici, gli studiosi e ricercatori non asserviti alla committenza, i reporter e i critici indipendenti, sono per lo più ignoranti: in ordine decrescente di importanza, sono questi gli intellettuali il cui impegno è più utile, proprio perché la loro attività non fa “evento” né notizia.

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