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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2015 alle ore 08:14.

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Il centro di Tokyo è a due passi, ma la metropoli sembra lontana dalle viuzze e saliscendi contornati da basse case e accenni di boscaglia. Sulla collina sopra l’area di Myogadani, due cippi e una iscrizione allertano su un fatto storico: qui si trovava la Kirishitan Yashiki, la prigione dei cristiani costruita nel 1646, e qui fu internato Giovanni Battista Sidotti (o Sidoti), l’ultimo missionario venuto in Giappone (e il primo da molti decenni) nel periodo di totale chiusura del Paese al mondo. Sono passati 300 anni dalla morte dell’abate siciliano che volle sfidare i decreti shogunali di proibizione del cristianesimo, che portarono alle più gravi persecuzioni dai tempi dell’impero romano, entrando clandestinamente in Giappone nel 1708 in un estremo e quasi suicida tentativo di ripresa dell’attività missionaria. Subito arrestato, fu poi interrogato da un insigne studioso confuciano e consigliere dello shogun, Arai Hakuseki(1657-1725), che lasciò resoconti molto interessanti dei loro dialoghi. Grazie a questo incontro tra rappresentanti di due mondi diversi, Sidotti è entrato nella storia culturale delle relazioni tra Occidente e Oriente. Morto di privazioni e stenti a 46 anni – dopo l’irrigidimento del regime penitenziario seguito alla proibitissima conversione di una coppia di suoi guardiani – Sidotti (non un gesuita, contrariamente a quanto scrivono Wikipedia e altri) sarebbe stato dimenticato – in quanto sparito nel nulla - se a metà Ottocento non fossero stati ritrovati i manoscritti di Arai, che grazie all’interlocutore siciliano si convinse tra l’altro della superiorità tecnica e scientifica dell’Occidente (fornendo una base teorica alla necessità di aprire il Paese ai contatti con l’esterno, come poi avvenne).

Se per un secolo e mezzo non si seppe niente della sorte del missionario, il secondo mistero Sidotti potrebbe essere vicino alla soluzione: quello della sua tomba. Alla fine di luglio dell’anno scorso, durante i lavori per la costruzione di uno sproporzionato edificio proprio di fronte ai cippi rievocativi, sono state scoperte alcune tombe, le cui fotografie (comprese quelle dei resti umani ritrovati) sono state mostrate da alcuni abitanti della zona al termine della conferenza che il professor Pino Marras tenne all’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo nel dicembre scorso in occasione dell’anniversario (si ritiene generalmente che Sidotti morì a fine novembre 1714, anche se c’è chi ritiene che la data debba esser spostata al 1715). Il ritrovamento aveva portato a un ritardo dei lavori, di cui il vicinato era stato informato. Testimonianze sempre di abitanti della zona indicano che le ossa rinvenute sarebbero state portate in un laboratorio, presumibilmente in previsione di successive analisi. Su questo, però, non ci sono ancora conferme ufficiali. Forse perché la vicenda potrebbe risultare imbarazzante, visto che la società di costruzioni (Daiho, per conto di Mitsubishi Jisho Rejidensu) ha proceduto con i lavori (oggi l’area è sbarrata come fosse un bunker e l’edificio pare a buon punto, tutto ricoperto da teloni). «Ci sono alte probabilità che quello fosse il luogo di sepoltura di Sidotti - dice padre Mario Canducci, francescano, da oltre mezzo secolo in Giappone, riferendosi anche agli autorevoli studi (con ricerche sul campo) da R. Tassinari negli anni ’40 (che escludevano una sepoltura in un tempio buddista) - .Che le ossa siano le sue, solo le analisi scientifiche potrebbero appurarlo». L’eco della scoperta è arrivata ad alcuni discendenti del Sidotti, che intendono rivolgersi alle autorità giapponesi per essere informati sugli sviluppi degli accertamenti sui possibili resti del loro antenato, che tra l’altro portò in Giappone una immagine della Madonna oggi custodita nel Museo Nazionale di Ueno.

In passato la comunità cattolica giapponese non ha preso iniziative per “valorizzare” l’area del Kirishitan Yashiki, anche perché si trascina dietro non pochi imbarazzi: lì vissero anche alcuni padri che abiurarono sotto l’insopportabile tortura dell’anazuri (esser appesi a testa in giù sopra una fetida buca), l’ultimo dei quali (morto poco più di 20 anni prima dell’arrivo del Sidotti) fu il gesuita Giuseppe Chiara. Alla vicenda di Chiara si ispira l’ultimo film, di ormai imminente rilascio, di Martin Scorsese tratto dal romanzo di Shusaku Endo Silenzio (con scenografia di Dante Ferretti e di Francesca Lo Schiavo). Una pellicola dalla gestazione tormentata, le cui riprese sono state ultimate da poco a Taiwan, che si profila di grande impatto e pare destinata a rilanciare l’attenzione sui rapporti storico-culturali e spirituali Est-Ovest. La storia si basa su due missionari che si recano in Giappone per appurare la verità sulle voci di apostasia di un loro confratello e mentore (il personaggio storico di padre Cristovao Ferreira) ed eventualmente vendicarla con il loro martirio. La visione delle atroci sofferenze inflitte ai cristiani giapponesi cambierà il loro approccio, già turbato dal pessimismo dell’apostata Ferreira, secondo il quale il Giappone è come una palude in cui il messaggio cristiano non riesce ad attecchire. Due mondi spirituali certo diversi, di cui si ha una riprova nei dialoghi tra Sidotti e Arai, resi peraltro ardui dalle difficoltà di lingua. L’esponente di punta del razionalismo confuciano divenne un ammiratore dello straniero per le sue conoscenze scientifiche (specialmente in astronomia e geografia) e delle sue capacità dialettiche, ma disse di trovare irragionevoli fino all’incomprensibilità le sue affermazioni sulla religione della trascendenza e dell’incarnazione. Ad ogni modo, Arai potè scrivere il Seiyo Kibun (Cose udite dell’Occidente, che Marras sta traducendo) e il Sairan Igen (Raccolta di discorsi non comuni), che – come sottolinea il professor Aldo Tollini – «divennero i primi trattati di geografia del Giappone e inaugurarono una scienza nuova influenzando molti studi successivi». Partito con l’intenzione di riaccendere la fede cristiana in Giappone, Sidotti finì insomma per diventare soprattutto un trasmettitore di cultura. Oltre che, per molti, un martire lasciato morire di stenti in una fredda, strettissima e buia fossa.

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