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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2015 alle ore 08:13.
Il 6 gennaio 1497, pagando nove grossetti, si iscrive all’Università di Bologna un giovane polacco: «Dominus Nicolaus Kopperlingk de Thorn» nei registri universitari. Dopo sei anni di studi italiani - Bologna, Padova, Roma e Ferrara - Copernico torna in Polonia, dove lavora tutta la vita a una nuova concezione dell’universo, che apparirà in un libro, il De revolutionibus orbium coelestium , uno dei libri più importanti nella storia del mondo. Il libro grazie al quale questa specie di animaletti che vive su un pianeta marginale di una stella periferica di una qualunque fra i miliardi di galassie del cosmo, si rende conto per la prima volta, con stupore, di non essere il centro dell’universo.
Che ruolo hanno giocato gli anni di studio di Copernico nell’università italiana, per arrivare a questo passo fondamentale per la civiltà? Credo la risposta sia duplice. Copernico ha trovato due tesori in Italia. Innanzitutto ha trovato i libri che racchiudevano come uno scrigno il sapere accumulato dall’umanità. Ha trovato l’Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide, che riassumono il meglio del grande sapere astronomico e matematico antico. Ha trovato astronomi italiani, come Domenico Maria Novara, a cui è stato molto vicino, che questi testi li sapevano comprendere e che hanno saputo introdurlo ad essi.
Ha imparato il greco, ha avuto accesso ai testi dove probabilmente ha incontrato le idee eliocentriche di Aristarco, e ai testi arabi dove ha potuto studiare i tentativi di ritoccare i sistema astronomico Tolemaico che si sono succeduti con poco costrutto per oltre un millennio. Ma questa ricca eredità culturale era disponibile da molti secoli. Lo era per gli astronomi Indiani, Persiani, Arabi e Bizantini, che ne hanno tutti avuto accesso. Nessuno di loro ha saputo utilizzarla per comprendere il punto chiave: che non viviamo nel centro dell’universo. Copernico ha avuto a disposizione qualcos’altro, che gli ha permesso di fare il grande salto. Che cosa?
Gli anni italiani di Copernico sono gli anni in cui Michelangelo ventitreenne scolpisce la Pietà e Leonardo da Vinci prova le sue macchine volanti e dipinge l’Ultima Cena. Il fervore culturale nuovo dell’umanesimo italiano, leggero e luminoso, che sta aprendo le porte del Rinascimento, brulica nelle antiche università italiane e nelle corti, come quella di Lorenzo de’ Medici, dove suonano accenti completamente impensabili fino a poco tempo prima: «Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia, di domani non c’è certezza.»… La ricerca dei testi antichi, la riscoperta del sapere del passato, ossessione degli umanisti, è spinta da un desiderio bruciante di un futuro nuovo, diverso dal presente. Aveva iniziato Francesco Petrarca, il secolo precedente: «Le opere del passato sono come i fiori da cui le api traggono il nettare per fare il miele». E il miele cominciava davvero a scorrere, nell’talia a cavallo fra il ’400 e il ’500.
Lo spirito del tempo era un’apertura profonda a qualcosa di completamente nuovo, che vediamo nell’arte fulgida di quegli anni. La fiducia che un mondo diverso, lontano dall’universo mentale strutturato e gerarchico del Medioevo, potesse essere costruito. Libertà intellettuale, coraggio delle idee individuali, ribellione contro i grandi sistemi rigidi del pensiero medioevale. Questo spirito di cambiamento, questa ribellione profonda al presente, è la seconda grande ricchezza intellettuale che trova Copernico quando viene a iscriversi, per nove grossetti, all’università di Bologna. Non trova solo Euclide, Tolomeo e Aristotele, in Italia: trova anche l’dea che il loro grande sapere possa essere rivoluzionato.
Credo che questa doppia esperienza sia quella che una grande università abbia offerto a ciascuno di noi. Per me, il passaggio da Bologna ha significato sì la scoperta di idee e testi straordinari, come i lavori di Einstein, o il libro di Dirac, il testo fondamentale della meccanica quantistica. Ho incontrato questo libro perché il mio professore di Metodi Matematici, Guido Fano, mi ha assegnato uno studio sull’applicazione della teoria dei gruppi alla Meccanica Quantistica, teoria che non conoscevo, e ho così cominciato a studiare, restandone affascinato per tutta la vita. Questa ricchezza intellettuale, scoperta a Bologna, è stata essenziale per me. Ma c’è stato qualcos’altro che ho trovato a Bologna: l’incontro con quella parte della mia generazione che voleva cambiare tutto, che sognava di inventare modi nuovi di pensare di vivere insieme e di amare. A Bologna ho incontrato gli amici di Radio Alice, le occupazioni universitarie, le case dove si viveva insieme il sogno adolescenziale di ripartire da zero e rifare da zero il sapere, rifare da zero il mondo. Rifarlo diverso e più giusto. Sogno ingenuo, sempre destinato a scontrarsi contro le secche del quotidiano. Sempre destinato a grandi delusioni.
Ma è lo stesso sogno che Copernico ha incontrato nell’Italia del primo Rinascimento. Lo stesso sogno non solo di Leonardo e di Einstein, ma anche di Robespierre, Mazzini, e Washington, e perfino dei ragazzi che vanno oggi a combattere per Daesh. Sogni assoluti, che spesso ci portano diritti contro un muro, spesso mal diretti, ma senza i quali non avremmo tutto il buono che c’è oggi nel mondo.
Il mese scorso, il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi, ha organizzato una grande “Reunion” dei laureati bolognesi per celebrare la comune Alma mater. E per riflettere insieme sul senso dell’esperienza universitaria. Idealmente c’eravamo tutti, da Copernico, dai tanti altri nomi illustri del passato, ai giovani freschi freschi di laurea dell’ultimo anno accademico.