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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2015 alle ore 08:13.
Cosa attrae veramente l’umanità? Il sesso, ormai indisgiungibile dalla pornografia? Il cibo che, malgrado i due terzi dell’occidente sia a dieta, imperversa ovunque, dai libri al cinema? La morte, questo mistero scaduto, ormai degradato a gadget di teschi di plastica con brillantini sintetici? Un Dio ormai sempre più fragile e ipotetico? No, la risposta purtroppo è semplice: l’umanità è ipnotizzata dal proprio ombelico e il selfie è l’atto supremo e irrinunciabile di consacrazione di questo inestinguibile interesse. «Nessuno più ritrae quello che vede, ma mostra se stesso… lo schermo del proprio cellulare si fa specchio, e non finestra sul mondo», spiega Cotroneo in questo pamphlet dolente, appassionato e pieno di nostalgia per quello che la fotografia è stata prima di ridursi a frettoloso specchio del narcisismo di massa.
Chi avrebbe potuto prevederlo quando una coppia di turisti ci chiedeva a gesti di scattare loro una fotografia? O quando l’autoscatto sorprendeva il fotografo dilettante non ancora in posa? Invece è successo e continua a succedere con un ritmo crescente che rivela un’inquietante visione del mondo, in cui qualsiasi sfondo, da un capolavoro a una jungla, è relegato in secondo piano rispetto al volto soddisfatto di sé di chi aziona lo smartphone. «Il selfie è frutto di un narcisismo gigantesco che ha incontrato la tecnologia per espandersi all’infinito».
Oltretutto la deriva è ancora più allarmante quando esaminiamo un altro indizio. Se infatti consideriamo quegli antenati dei selfie che erano gli autoritratti degli artisti, ci accorgiamo subito che nei selfie manca qualcosa o meglio qualcosa è mutato. È scomparso quello sguardo attento e penetrante con cui il pittore scrutava se stesso, controllando la somiglianza tra l’opera e il modello. Uno sguardo che andava oltre alla constatazione della propria identità per estraniarsi da se stesso e vedere il proprio viso come uno dei tanti esistenti. Al suo posto regna incontrastata la soddisfazione beota del selfista, che prima di tutto, nel valutare il risultato, si accerta della propria tronfia presenza. Per il selfista, lo sfondo più inedito ha la stessa importanza che nello studio del fotografo ottocentesco avevano i punti d’appoggi – tavolini, colonne, fioriere – destinati a sorreggere il modello nelle lunghe attese.
Come se non bastasse il risultato di questo test involontario, le agevolazioni tecniche degli apparecchi telefonici, unite alle ridotte dimensioni dello schermo, contribuiscono a creare l’illusione di risultato eccellente. E, come dice Cotroneo, «non sapere aumenta in modo vertiginoso l’illusione di essere creativi. Ma genera un’idea di se stessi che è assai più alta di quanto sia veramente concesso dalla realtà delle cose».
Fin dagli albori le menti più illuminate nutrivano una diffidenza profonda verso il dagherrotipo. Quando il grande Nadar aveva cercato di immortalare Balzac se ne era dovuto tornare a casa a mani vuote. Il più moderno dei romanzieri di allora era infatti convinto che l’essere umano fosse composto da una serie infinita di spettri destinati ad essere intaccati ad ogni fotografia. Inutile dire, la fotografia vince sempre, che anche Balzac, seppure per una volta sola, avrebbe ceduto rivelando un viso scavato dalle fatiche notturne illuminate dall’abuso di caffè. Eppure, malgrado il disordine evidente, lo scrittore ha la maestà di un sovrano stanco e le pieghe della camicia sul corpo sformato hanno la maestà delle scanalature di una colonna.
«Il gesto di fotografare - spiega Cotroneo - una volta era una scelta, una volontà, era un modo di sedere al tavolo delle identità portando con sé un oggetto perfetto per capire: la macchina, con tutta la sua capacità di scrutare. Il soggetto fotografato lo sapeva, prendeva coscienza che il gioco era iniziato, ed entrava nella parte. Il soggetto fotografato poteva avere un’espressione sofferta, oppure poteva atteggiarsi a divo e diva, replicando gesti, espressioni e movimenti che aveva visto in immagini di persone celebri. Il fotografo sapeva che fotografare un albero, per uscire dal discorso del ritratto, non era solo sfiorare uno schermo dove già l’albero era apparso, prima di scattarlo, ma si trattava di una scelta, persino di un rischio». Così la lucida denuncia dello scrittore fotografo si intreccia, in queste affascinanti pagine, alla nostalgia per un passato ormai irreparabilmente remoto, in cui Zola poteva sostenere: «Secondo me, non potete dire di avere visto veramente qualcosa se non l’avete fotografato». Perché, scrive Cotroneo, «la fotografia non è solo memoria e ricordo. È consapevolezza, ed è capacità di guardare e di guardarsi. Ognuno deve sapere quale fotografia si porterebbe su un’isola deserta e soprattutto perché».
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Roberto Cotroneo, Lo sguardo rovesciato. Come la fotografia sta cambiando le nostre vite , Utet, Torino, pagg. 162, € 11,90