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Un tuffo nella vecchiaia a 50 anni

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metamorfosi

Un tuffo nella vecchiaia a 50 anni

Non era la prima volta che un uomo si alzava per lasciarmi il posto sull'autobus, ma fino ad allora il gesto si era accompagnato a una battuta galante, un'occhiata d'intesa.
«Fa' sedere la signora» aveva suggerito una ragazza al compagno e lui, con lo zelo delle associazioni di volontariato, si era alzato di scatto, invitandomi.
Gli avevo fatto cenno che non serviva, davvero.

Per il resto del viaggio ero rimasta in piedi, trovando nella calca un conforto inspiegabile, desiderando che quel posto venisse occupato, alla svelta, da una fisicità più bisognosa della mia: una donna incinta, un reduce di guerra. Invece, fino alla mia fermata, quel sedile aveva continuato a essere vuoto, come a minacciarmi: spettava proprio a me e ai miei cinquant'anni.

La sera stessa, allo specchio, avevo notato che il gonfiore sotto gli occhi si era fatto turgido.
Non avevo mai avuto borse: si erano direttamente dilatate da pochettes a valigie.
In maniera compulsiva, utilizzando la mano a mo' di cazzuola, mi ero spalmata sul viso l'unico reperto dermatologico presente in casa: il Penaten, una pasta dalla compattezza della calce che si applicava al sedere arrossato dei neonati. Doveva essere scaduta perché i miei figli, nel frattempo, si erano laureati, ma il barattolino, bordato di una leggera ruggine, era così familiare da sembrarmi innocuo.

«Che ti sei messa?» aveva domandato divertito mio marito al rientro dall'ufficio, poi, avvicinandosi, «Oh Gesù! Mica sarà la pomata dei bambini?» si era allarmato, «Sta nell'armadietto da un'eternità, come minimo è tossica!».

Quasi risentita che mi reputasse capace di un'azione tanto insensata, «È una maschera di bellezza!» avevo puntualizzato con tono vezzoso, ed ero corsa in bagno a gettarmi secchiate d'acqua sul viso e a buttare il barattolino, stando attenta a non contrarre il tetano.
Da allora avevo iniziato ad aggiornarmi attraverso riviste specializzate. Sul finale di un articolo, dopo un'analisi comparata delle varie creme antietà, mi aveva rincuorato leggere che la grande attrice Anna Magnani, prima di un ciak, aveva raccomandato al truccatore: «Lasciami tutte le rughe. Non me ne coprire nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele».

A me, però, le rughe sembrava di non essermele fatte. Cercavo i colpevoli.
Seguendo i consigli contrastanti delle commesse, compravo ogni flacone, dal banale latte idratante sottoprezzo («Una marca vale l'altra, l'importante è la costanza nell'applicazione») alle sofisticate creme a base di bava di lumaca e siero di vipera («Chi più spende meno spende»).

Chi più spende almeno spende, pensavo io, non vedendo risultati, e nel reclamare cercavo di non contrarre i muscoli della fronte.
Che le donne abbiano un'attitudine alla stregoneria è dimostrato dal fatto che tutte, almeno una volta nella vita, credono di poter fare una rivoluzionaria scoperta scientifica improvvisando qualche rimedio casalingo, convinte che i premi Nobel non ci abbiano pensato.

«Esiste ancora il Penaten?» avevo chiesto con un filo di voce al farmacista.
Esisteva ancora, con la stessa formula di allora.
Imbustandomene due confezioni nuove, il farmacista mi aveva rassicurato «Ha preso un ottimo prodotto per i suoi nipotini».
Senza avere nipoti, avevo annuito.

Come un antidoto si basa su piccole dosi di veleno, mi ero convinta che erano stati i miei figli a farmi venire le rughe e che la stessa pomata, che un tempo avevo applicato sul loro sedere, me le avrebbe fatte passare.

«Bisognerebbe cominciare i trattamenti a vent'anni» sostenevano i medici in un salotto televisivo, e stilavo nella mia testa un trattato di condizionali: se avessi letto più riviste e meno libri... se avessi mangiato più fitonutrienti... se avessi saputo cos'erano i fitonutrienti... se avessi preso le scale anziché l'ascensore... se mi fossi messa la protezione solare anche in città d'inverno... se avessi dormito almeno sette ore a notte... se avessi sognato di più... se avessi fatto sesso almeno tre volte a settimana, anche quando ero stata indisposta, stanca, preoccupata, delusa, furiosa, lontana, anche quando mi era sembrato più urgente ristabilire tutt'altro tipo di contatto.

In chiusura di programma, il conduttore aveva sciorinato un discorsetto consolatorio sull'anima, citando il solito episodio: «Vi salutiamo ricordando ciò che l'indimenticabile Anna Magnani disse al truccatore», e sullo schermo, a caratteri cubitali, era apparsa la frase «Lasciami tutte le rughe. Non me ne coprire nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele».

Ciò che più mi mancava era il magnetismo del mondo: le traiettorie degli sguardi per strada, le orbite di parole attorno. Anche da sposata, pur senza tradire, avevo conservato il piacere di piacere, il gusto di schivare attenzioni, declinare un invito, buttare un biglietto, sfiorare fantasie che rimanevano fantasie. D'un tratto mi ritrovai a camminare al di fuori di quell'atmosfera elettrica. Era diventata mia figlia la calamita di istinti e istanti: saltellante, fingeva di sbuffare perché le arrivavano rose rosse o le venivano dedicate canzoni.

Per Natale mio marito e i miei figli mi regalarono una lavatrice, per il compleanno un set di pentole di acciaio inossidabile. Mi scambiavano per una casa ed ero ancora una donna! Ero ancora una donna? Riferivo queste scaramucce quasi fossero crimini da tribunali internazionali e, prendendomi il capo tra le mani, mi chiedevo: come avevano potuto degli esseri umani arrivare a tanto?
«Esagerata...» mi disse la mia migliore amica per sdrammatizzare, «manco t'avessero dato della troia!».
«Magaaaari!» esclamai sul serio e scoppiammo a ridere.

Il primo insulto che veniva in mente per offendere una giovane donna, specie se graziosa, non era mai il primo che si attribuiva a una signora di una certa età. Di fronte a una cinquantenne, “troia” poteva essere al massimo il secondo pensiero, in ogni caso arrivava sempre dopo “vecchia”.

C'era una volta in cui le automobili si fermavano volentieri per farmi attraversare. Rimpiangevo quel periodo incantato mentre, tra la meraviglia e il terrore, rischiavo quotidianamente di essere arrotata sulle strisce se non mi accodavo a una mandria di turiste.

C'era una volta in cui il vigile non mi faceva la multa se parcheggiavo per qualche minuto in divieto di sosta e il macellaio andava a prendermi il taglio più tenero dalla cella frigo.
Era scaduto per me quel tempo da favola in cui una ragazza, scherzando, osa chiedere l'impossibile e trova sempre qualcuno disposto a darglielo.

Come si può accettare di non mettere più il vestito sul quale gli uomini lasciavano gli occhi? Come si può sopportare il pH della propria pelle che cambia, avvertirne il sottofondo acre?
Non avevo più il guardaroba che mi piaceva, ma quello che accompagnava meglio la mia figura. Con i pantaloni lunghi iniziai a coprire accuratamente la voglia che ho sulla gamba destra. Assomigliava a una fragola di bosco, quando ero giovane, e invitava a coglierla; ormai aveva assunto le fattezze di una patologica macchia sanguinolenta, chi la guardava mi sembrava sospettasse persino che fosse contagiosa.

Mi ero abituata al vantaggio: mi costava fatica disabituarmi. Proprio io che, all'epoca, facevo le smorfie all'obiettivo per scacciarlo, mi pentivo di non essermi messa in posa e di avere così poche foto. Le migliori le avevo messe in cornice e piazzate nei punti più visibili del salone. Era la mia strategia per continuare a riscuotere complimenti. Era il mio modo di dimostrare che, anche se il tempo stava cancellando da me le prove di com'ero, io le prove le avevo.

Invidiavo le brutte. Mi sembrava che per loro invecchiare fosse riparatorio, a tratti entusiasmante: potevano raccontare di essere state protagoniste dei balli anziché spettatrici marginali; occupare abusivamente i ricordi dei filarini delle più carine della classe, come cornacchie che si appropriano del canto del cigno. Qualche uomo, ascoltandole, ci cascava e magari ci finiva anche a letto. Le brutte avevano smesso di pagare il prezzo del confronto ed erano pronte a farlo scontare, dispensando sleali lezioni a chiunque.

«Dovresti segnarti in palestra con me, mollacchiona.» si era permessa di consigliarmi un tonico sgorbio di donna durante una cena da alcuni amici in comune e, coinvolgendo mio marito nella discussione, aveva aggiunto «Sono sicura che lui è d'accordo».

Come nel preludio di un duello nel far west, tra i commensali era sceso il silenzio e in mezzo alle bottiglie di vino era rotolata con lentezza una balla di fieno.
Non volevo offenderla, non era il caso, davanti a tutti poi.
Avevo inspirato-espirato profondamente, contando fino a dieci e, sforzandomi di mantenere un tono allegro, mi ero difesa «Cara mia, un tempo facevo la mia figura...».
Non m'importava di rendermi ridicola in presenza di mio marito: mi sembrava che gli uomini non c'entrassero con il tempo che passa, era una faccenda tra donne.
Come si cala un asso dalla manica, avevo estratto dalla tasca le foto di me ragazza e, mettendogliele sotto il naso, l'avevo sfidata: «Tira fuori le tue adesso, se ne hai il coraggio!».

Non volevo offenderla, non era proprio il caso, davanti a tutti poi.
Ma lei, senza far circolare le mie foto, si era sbrigata a restituirmele, ribadendo «Eh, ma io ti vedo adesso!». Poi, rivolgendosi alla compagnia, con un atteggiamento da maestrina aveva detto «A proposito di vecchiaia...» e, come rivelando un aneddotto sconosciuto, aveva iniziato a raccontare: «...sapete cosa disse la mitica Anna Magnani al truccatore che voleva coprirle le rughe?».
Fu allora che la interruppi con una semplice domanda: «E tu sai cosa le rispose il truccatore?»
Non lo sapeva lei. Non lo sapevano gli altri invitati. Non lo sapeva nessuno al mondo, nemmeno io.
«Cosa, cosa?» chiese lei curiosa.
Fu allora che scandii un sonoro «Ma vaffanculo!», facendo impallidire anche le tavolate accanto alla nostra. Con quella parolaccia mi liberavo dall'inquinamento di scemenze che avevo letto, ascoltato, visto, dall'ansia da prestazione femminile che sentivo in giro e addosso. Con quella parolaccia ritrovavo l'onestà verso me stessa e gli altri, mentre mio marito, prendendomi sottobraccio e accompagnandomi verso l'uscita, ripeteva «S'è fatto tardi... dobbiamo andare... grazie mille dell'invito... siamo stati benissimo... buonanotte a tutti».

Ero fuori, non soltanto dal mondo dei favori che spettano alle ragazze, ero fuori anche dal mondo dei favori che spettano alle anziane.
Se ti cade un foglio a trent'anni, fanno a gara per raccogliertelo.
Se ti cade a ottant'anni, qualcuno che te lo raccoglie lo trovi.
Se ti cade a cinquant'anni, ti avvertono «Signora, le è caduto il foglio». Pensano che tu non abbia più la vista buona, ma la schiena sì.

Mi chiedevo: perché dovrei sforzarmi di restare aggrappata a un filo sottilissimo d'illusione? Non era meglio strapparlo, come si cavano i denti marci che traballano?
Al mare, dalla riva, mi sono fermata a guardare: due signore, all'incirca della mia età, camminavano in acqua avanti e indietro, con le braccia ad anfora e il cappellino in testa. Sentendosi brave e sane, scatenavano una guerra (già persa) contro la forza di gravità, facevano una fatica da aratro affinché la carne, millimetro dopo millimetro, cedesse con più lentezza.

Al mare, dalla riva, mi sono fermata a guardare e ho pensato: dovrei farlo anch'io.
Con coraggio mi sono tolta il pareo, intrepida ho attraversato la spiaggia, puntando l'orizzonte. È stato in quei pochi passi – mentre arrivavo a bagnarmi i piedi, le caviglie, le gambe – che la vecchiaia mi è parsa un passaggio da affrettare anziché temere, proprio come dovevo sbrigarmi a entrare in acqua. L'ingresso graduale, infatti, complica la situazione e basta: ci sono i sassolini disgraziati che ti feriscono le piante dei piedi o ti fanno inciampare; qualche bagnante, credendosi simpatico, si diverte schizzandoti a tradimento; il vento ti schiaffeggia; senza contare che il tuo corpo è più a lungo esposto in verticale, di spalle, sotto il sole a picco che ne esalta ogni imperfezione. È stato in quei pochi passi che il mare non mi è parso creato per camminarci dentro, come non è creato per camminarci sopra.

Nel mare ci si tuffa e via: credo sia l'unico modo di continuare a nuotare.
Ogni giorno sull'autobus mi faccio vedere distrutta, fingo telefonate in cui mi dichiaro affranta.
Se nessuno spontaneamente mi lascia il suo posto, mi lagno, riferendo di avere inesistenti problemi circolatori, sollevo la gamba destra dei pantaloni e mostro la voglia che ho sul ginocchio: è un trucco che funziona sempre. Se non ne approfitto ora, quando? Mi prendo il privilegio degli svampiti di poter dire quello che penso, e mi giustifico con un po' di demenza senile se mi dimentico un impegno.
Il Penaten, però, non si sa mai, ogni sera lo metto.

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