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Nel “Crepuscolo di Arcadia”, Marco Filiberti insegue la fine…

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Teatro

Nel “Crepuscolo di Arcadia”, Marco Filiberti insegue la fine della Bellezza

È la summa di un pensiero e di una pratica artistica perseguita con passione e caparbietà, compendio illuminante di una costante ricerca della bellezza da inseguire e restituire, che affonda mente e cuore nel mondo classico, nella sua nostalgia, che non è rassegnazione di un mondo perduto. “Il crepuscolo di Arcadia” segna per Marco Filiberti un ulteriore tappa del suo percorso d'autore e regista, orientato ad una pervicace affermazione della Bellezza salvatrice del nostro tempo. In questo dramma epico-pastorale sulla morte del desiderio nella nostra società, Filiberti crea in grande, all'insegna della spettacolarità. Rievoca miti e storia, richiama déi, satiri, poeti, eroi e letterati. Sul palcoscenico rialzato che copre l'intera platea del Teatro degli Avvaloranti di Città della Pieve – dove la pièce ha debuttato - ravvicinando così gli spettatori sui soli palchetti, egli convoca uomini natura e cose in un'unica landa desolata immersa via via in cieli plumbei poi stellati, tra fuochi e apparizioni, esplosioni e visioni incantatrici. Qui, tra le rovine di un teatro trovano rifugio un gruppo di giovani scampati a un disastro apocalittico che decidono di mettere in scena, a modo loro, quello che sta accadendo nel mondo. Dopo canti e danze di amor cortese si disperderanno al sopraggiungere di deflagrazioni inquietanti e interferenze di congegni elettronici. Questo convito iniziale, in cui viene evidenziato il disagio che investe la funzione dell'attore nell'inscenare “la colpa della contemporaneità” – così la definisce Filiberti –, precede i dieci quadri successivi dell'opera. In un'atmosfera cupa Calliope avanza trascinando il corpo di Apollo, il dio delle arti e della profezia, ferito a morte, dopo che Eros è fuggito in preda al panico. L'incipit dall'Iliade «Canta Musa divina, l'ira rovinosa d'Achille…», e la maledizione di Calliope all'«empissima razza» umana «imbarbarita dall'assenza di ogni grazia», dà l'avvio al racconto sulla fine dell'umanità, alla morte di Eros e della Poesia, e alla lotta tra Dei ninfe e fauni nel tentativo di salvare il mondo e farli rinascere. Con una scrittura aulica, unico linguaggio capace di sopravvivere ancora nella terra di mezzo all'avanzare della degenerazione, Filiberti ci immerge in un viaggio affascinante, teso alla trasfigurazione, nel tentativo di scorgere nuovi orizzonti per recuperare l'armonia e la femminilità perduta, come constaterà Titania, l'unico essere umano presente nella vicenda.

Al giovane pastore Natanaele, iniziato dal saggio Menalca alla libertà interiore e al piacere, viene affidato da Zeus l'arduo compito di guarire la ferita di Apollo, per far sì che nel mondo possa esserci ancora futuro. Ma il prescelto si ribellerà fuggendo. Solo attraverso una rappresentazione egli potrebbe commuoversi a tal punto da comprendere il grave compito al quale è destinato. Ecco allora inscenato l'episodio di Venere e Adone (siparietto dove Filiberti ironizza sui vezzi del teatro d'oggi e denuncia la sua delegittimazione). Allo stesso tempo Zeus impone a Ermes di ordinare a Pan, responsabile di avere insidiato gli uomini al mondo degli istinti, lo sterminio di tutte le creature dei boschi e togliersi la vita. Tra giochi di seduzione e capricci fra il pastore Aminta la ninfa Silvia e Natanaele; tra apparizioni misteriose di cavalieri, duelli d'armi, agnizioni, pene d'amore e sacrifici della vista e della voce, altri colpi di scena si susseguiranno sino al finale leopardiano «Dimmi,o luna:ove tende questo vagar mio breve,il tuo corso immortale?» con la voce fuori campo dello stesso Filiberti che suggella il suo pensiero davanti alla coppia Natanaele e Brunilde mentre si avviano verso l'immensità cosmica. Panteismo e manierismo, favola e cosmogonia convivono in un disegno scenico e drammaturgico – al quale gioverebbero dei tagli testuali – nel quale Filiberti attinge a suggestioni tratte da Ovidio, Shakespeare, Keats, Woolf, Williams e Garcia Lorca, e, naturalmente, dal Tasso dell'Aminta; cita formalmente la pittura del Seicento nelle pose e nelle danze; e per le musiche setaccia mirabilmente Monteverdi, Wagner, Mozart, Debussy, Max Richter, Stravinskij, Arvo Part, Hirsta, Glass. Un concorso di attori ineccepibili (impossibile citare tutti ma almeno Filippo Luna, Luigi Pisani, Giuseppe Lanino, Giulia Galiani, Gabriele Vanni) votati a un disegno registico altamente espressivo, ciascuno in un ruolo e in una funzione connessa, di grande resa corale, ha reso possibile questa creazione da annoverare come un vero e proprio evento artistico di teatro totale.

Il Crepuscolo di Arcadiatesto e regia Marco Filiberti, scene Benito Leonori, luci Alessandro carletti, costumi Patricia Toffolutti, suono Marco Benevento, coreografie Daniela Malusardi. Interpreti: Filippo Luna, Luigi Pisani, Giuseppe Lanino, Giovanni De Giorgi, Giulia Galiani,Luisa Maneri, Gabriele Vanni, Diletta Masetti, Enrico Roccaforte, Emilio Vacca, Lucia Mazzotta, Tanita Spang, Noemi Rossi, Emanuele Burrafato, Artem Prokopchuk. Al Teatro degli Avvaloranti di Città della Pieve, per “Le vie del teatro in terra di Siena”.

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