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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2015 alle ore 08:19.

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Il ritratto di Bashar Assad in mezzo alla piazza, bandiere siriane orgogliosamente gonfiate da un vento caldo e impetuoso, slogan a sostegno del regime gridati con tutto il fiato in corpo. Perfino a Damasco sarebbe ormai difficile vedere manifestazioni simili. Ma questo è Israele. O meglio: il Golan occupato dal 1967, anche se è impossibile immaginare quando potrà tornare alla Siria. Né se mai la Siria come l’abbiamo conosciuta, tornerà a esistere.

Se si conosce il Levante contemporaneo non è così eccezionale che una manifestazione a favore del regime siriano si svolga in un luogo controllato da Israele. Quaggiù esistono le frontiere ed esistono i popoli ma non sempre c’è un rapporto conseguenziale e logico fra le une e gli altri. Solo il popolo che ha la forza e le armi si disegna attorno frontiere più o meno sicure e determinate: per esempio Israele, anche se 67 anni dopo la sua nascita non tutti i confini sono ancora certi. Gli altri popoli, le minoranze, cercano una via d’uscita. Come il milione e mezzo di drusi, 700mila dei quali in Siria, 215 in Libano, 140 in Israele e 32mila in Giordania; gli altri vivono in Canada, Stati Uniti, Venezuela e Australia. Arabi che non sono musulmani, cristiani né ebrei. Tuttavia la loro religione monoteistica e abramitica comprende elementi delle tre fedi, oltre a un po’ d’induismo. Credono nella trasmigrazione dell’anima e nelle scritture delle tre grandi religioni, ma soprattutto venerano il loro testo sacro, il Kitab al-Hikma, il Libro della saggezza. La setta diventata popolo era nata in Egitto nell’XI secolo. Circa 500 anni fa i drusi sono emigrati verso Nord, ottenendo dall’impero ottomano il diritto di esercitare un’autonomia amministrativa da Gaza alla Siria e alle montagne del Libano. Un’autonomia tribale, mai nazionale.

«I drusi di Siria ci stanno gridando: fratelli dove siete?», è lo slogan dei manifestanti qui a Madal al-Shams, il più importante dei quattro villaggi drusi del Golan. La frontiera siriana è a 300 metri ma dall’altra parte ora ci sono i qaidisti di abat al-Nusra, e l’Isis si sta avvicinando da Nord. L’esercito siriano si sta dissolvendo e i villaggi drusi del Golan siriano a due chilometri da qui, del abal al-Druz e verso la frontiera giordana e della lontana Idlib, vicino alla Turchia, sono sotto assedio islamista e devono difendersi da soli. I drusi siriani che vivono nel Golan occupato da Israele, chiedono ora ai drusi israeliani di mandare armi e aiuti ai drusi di Siria. E lo chiedono an che ai drusi libanesi di Walid umblatt, che hanno ministri nel governo di Beirut e ai drusi giordani fedeli a re Abdullah.

Anche i curdi sono sparsi fra Turchia, Siria, Iraq e Iran ma in ognuno di questi paesi sono sempre stati un popolo a parte, ignorati, quasi ovunque perseguitati. I drusi invece sono cittadini a pieno titolo dentro le frontiere nelle quali li ha portati il destino o hanno scelto di vivere. La loro scelta pragmatica o nevrotica è di essere fedeli al potere ovunque essi siano. Ovunque vivano garrisce sempre la loro bandiera a righe verdi, rosse, gialle, azzurre e bianche. E accanto c’è n’è sempre un’altra: israeliana, siriana, libanese, giordana, a seconda della geopolitica.

I 140mila che vivono in Alta Galilea e nella zona del Monte Carmelo, hanno firmato un “patto di sangue” con gli israeliani e combattono nel loro esercito dove esiste un’unità drusa, il Gdud Herev, il battaglione della spada. Qualche mese fa lo stato maggiore aveva deciso di scioglierlo per integrare definitivamente i drusi nelle forze armate: un colonnello druso, Rassan Alian, è già diventato il comandante della Golani, una delle brigate d’élite interamente di ebrei israeliani. Ma la comunità si è appellata alla Corte suprema per mantenere in vita il suo battaglione etnico che da oltre 40 anni combatte tutte le guerre d’Israele.

I drusi del Golan si sentono fedeli alla Siria ma capiscono che l’occupazione israeliana è diventata la loro salvezza: senza dirlo in giro, molti hanno preso la cittadinanza israeliana, compreso il sindaco di Madal al-Shams. Sulle montagne dello Chouf libanese, nel diwan del suo palazzo di Mukhtara dove riceve autorità e postulanti offrendo tè e caffè turco, Walid umblatt cambia alleanze politiche scegliendo sempre chi ha più potere nel caotico sistema libanese. Il suo “centrismo” non è opportunismo ma necessità: il dovere del bek, il capo, è garantire la sopravvivenza e la sicurezza della minoranza che guida. I 700mila drusi siriani sono sempre stati con il regime familiare degli Assad. «Tutti i regimi arabi sono oppressivi e non democratici, ma quello che a noi drusi importa è che siano laici», spiega Ayoub Karra, vice ministro per gli Affari regionali del governo israeliano di Bibi Netanyahu, l’esecutivo più nazional-ebraico della storia del Paese. «Con questi sistemi possiamo convivere, chi più chi meno garantiscono i diritti delle minoranze».

Questo ordine delle cose, caotico e contradditorio solo in apparenza, è stato sconvolto dalla guerra civile siriana, dall’avvento del qaidismo e dello Stato islamico. Il regime di Bashar Assad s’indebolisce e il suo esercito ha abbandonato al loro destino le comunità druse. Mancando un potere a cui offrire fedeltà in cambio di sicurezza, i drusi sono disorientati. Il vice ministro Karra, druso d’Israele spiega che «i nostri nemici mortali sono gli estremisti islamisti che voglio imporre regimi religiosi: contro di loro combatteremo sempre». Ma Karra è al di qua della frontiera, la parte più sicura del mondo druso. Per quelli dall’altra parte le cose sono più complicate. Lo sheikh di Suwaida, il villaggio più grande del abal al-Druze, ha ordinato ai giovani di non servire più nell’esercito siriano. Per la difesa della comunità sono nate due milizie: Shiuk al-Karama e Dar al-Watan, una indipendente e l’altra ancora alleata al regime. Nel Golan siriano e nello abal al-Druze continuano a prevalere i fedeli ad Assad: perché sono geograficamente più vicini a Damasco e a Israele che ha deciso di aiutarli a dispetto della loro fedeltà alla Siria, per via del vecchio “patto di sangue” con i drusi israeliani. Ma quelli irraggiungibili di Idlib, conquistata dai ribelli, con gli islamisti devono trattare.

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