Dove trovare oggi in Italia quel quid di verità, nel romanzo, che ci assicuri che ciò che stiamo leggendo non è del tutto deperibile? Da una parte, volgersi a certi romanzi italiani - così come sono - induce un certo spavento: l’acquisto di verità che, una tantum, insieme al divertimento, il romanziere classico offriva ai suoi lettori, sembra oggi surrogato da una specie di nenia ricorsiva e condivisa, peraltro sprovvista d’un linguaggio specifico o “letterario”.
D’altra parte, alle regole e al mercato - anche globale - di questa “nenia” si sottraggono alcuni scrittori italiani che ribadiscono da un loro margine di (relativa) solitudine il principio di un’etica della narrazione e della ricerca formale. Raffaello Palumbo Mosca, studioso molto brillante di strategie italiane di sopravvivenza della fiction, nel suo L’invenzione del vero (Gaffi, 2014) ha proposto di recente un piccolo repertorio. Tra gli altri: Arbasino teorico e testimone della durata d’una Storia «arguta e vispissima»; La Capria pungente antagonista del vuoto del romanzo sperimentale («il linguaggio è tutto e la realtà può starsene dove le pare…»); Eraldo Affinati, inventore di storie vere che «nessun altro» potrebbe né saprebbe raccontare; Antonio Franchini investigatore scrupoloso di «verità storica» oltre la «verità giudiziaria»…
Nonostante le eventuali lacune della serie, ognuno di questi scrittori dimostrerebbe, in un modo suo, che il «demone della cronologia» non vale per il romanzo e che, al contrario, la funzione romanzesca di testimonianza del vero e di critica del reale vale oggi esattamente come ieri. Vero? Abbastanza vero? «La (possibile) centralità del discorso romanzesco - scrive Palumbo Mosca - sembra oggi affidata alla sua capacità di ritrovare un legame con il lettore reale, e dalla sua capacità di porsi come sguardo etico sulla realtà».
Ma qual è, propriamente, l’ethos di un romanziere? È lo stesso di un magistrato o di un politico o di un educatore? È per così dire definibile a priori rispetto alla forma romanzo? Oppure si stabilisce e si realizza solo a certe condizioni? Parlare «da uomo agli uomini,come, a lor modo, parlarono tutti quelli che ebbero qualche cosa di non cretino da raccontare» era la condizione stabilita, una volta per tutte, da Gadda. Ma lo stesso Gadda ci insegna che innanzitutto nello stile si misura la temperatura etica di un romanziere: se anche la realtà, per assurdo, fosse nel suo insieme “cretina”, prima ancora che dolorosa o insopportabile, nelle mani di un romanziere autentico si trasformerebbe necessariamente in «qualche cosa di non cretino da raccontare».
E dunque? Nell’attesa di verificare le ipotesi “continuiste” di Palumbo Mosca, il cui oracolo non a caso è il Gadda critico dell’Apologia manzoniana, oggi tuttavia non possiamo che riscontrare una certa diffusa mancanza di stile in certi romanzi italiani, dovuta precisamente a noncuranza morale: tutto in essi ci sembra monotono, uguale, scritto da un’unica mano in un gergo di tutti, come se ogni singola soggettività si acuisse morbosamente nel linguaggio comune dell’informazione piuttosto che indebolirsi e dissolversi nell’esemplarità dell’opera. Se il passo stilistico di Palazzeschi o Landolfi o Soldati o Parise o Tobino, fino a ieri, si riconosceva a occhi chiusi, al contrario oggi gli autori di certi romanzi sono riconoscibili unicamente dal nome sulla copertina.
Diverso, e degno di estrema attenzione, il caso di autori di non-fiction, cui a torto si attribuisce la solita matrice americana (dal Capote di Portraits and Observations al Lethem di The Disappointment Artist), dove è lampante invece il retaggio italiano, a partire da un certo Settecento curioso dei viaggiatori, fino a Cecchi, a Montale (Fuori di casa) e all’inimitabile Praz di Penisola pentagonale e Viaggi d’Occidente. Si tratta oggi di una famiglia sempre più estesa e mista di saggisti-narratori, descrittori di luoghi o tradizioni, cronisti d’un vero disponibile ai margini dell’informazione e trascurato dalla letteratura creativa propriamente detta. Nel codice di questi scrittori dire «ho visto», «mi ricordo», «ho incontrato», non ha nulla di crepuscolare ma anzi è una chiave essenziale dell’esercizio critico: una specie di via brevis per imbattersi nel vero da vicino o vicinissimo.
Silvio Perrella e Massimo Onofri sono gli ultimi a essersi incamminati su questa via e sono anche molto lontani l’uno dall’altro. In Doppio scatto (Bompiani, 2015), Perrella ricorre alla fotografia come al grado più alto e incontrovertibile di percezione della realtà e, a differenza di Roland Barthes che si interrogava sul «génie propre» della fotografia stessa (La chambre claire, 1980), utilizza l’immagine come mero accesso al linguaggio. Ciò che hic et nunc vediamo in una foto è per certi aspetti più vero di ciò che crediamo di aver visto durante una passeggiata e ci disponiamo a riferire in un romanzo. La distanza tra quella fotografia e la nostra eventuale registrazione o ricreazione è minima.
Su questo nudo asserto, e su una nutrita serie di istantanee napoletane, Perrella compone il quadro di una città letteraria identica, il più possibile, a quella vera o a quella che appare vera nel piccolo rettangolo della foto. Sarà il Fondaco Ragno a una traversa del Cavone, nero, dimenticato, simile a un anfratto «dove il Tempo ristagna»; o una vecchia finestra senza vetri aperta sull’azzurro; o la cupola di Santa Maria degli Angeli svettante su Montedidio; o il bianco piede d’un re a cavallo a un lato del Pallonetto; o infine un angelo del Banski a piazza dei Girolamini, al cui braccio teso pende uno squallido secchio… La Napoli fragorosissima dove si nasconde la bella megera che inganna Andreuccio, nel Decameron, o quella che «s’arma a gara alla difesa/ de’ maccheroni suoi», nei Nuovi credenti di Leopardi, qui tace improvvisamente. Tutto è silenzio nel libro di Perrella, come in un vecchio film dell’école du regard o, su un altro piano, in Palomar di Calvino. Ma, a differenza di Palomar, l’autore di Doppio scatto elude alti interrogativi e inquietudini teoretiche per chinarsi sulle sue minuscole fotografie-francobollo e cercarvi particolari rivelatori. Se anche gli sfugga il senso generale del luogo, tuttavia non trascura nulla di ciò che vede: il piede il secchio l’angelo e il cavallo gli dicono qualcosa di più ogni volta che li osserva. Sono mondi o parti di mondi che sopravvivono nel loro regesto nudo e nell’ermeneutica del «secondo scatto»: proprio gli stessi che al contrario tanta letteratura di primo grado (o d’invenzione o fiction) annienta e brucia come zolfanelli…
Generoso, irrequieto, umanista senza mezzi termini, Onofri in Passaggio in Sardegna (Giunti, 2015) mette in scena il suo paesaggio ideale conosciuto da professore universitario, e mai più lasciato. Se l’entusiasmo è una categoria della critica e addirittura una disciplina morale, questo autore entusiasta - qui narratore, saggista, viaggiatore - non smette un istante di essere il critico umano che conosciamo: «Il promontorio di Capo Caccia è di fronte a me nella luce immacolata e segna l’orizzonte: sono passati tredici anni e la Sardegna - chi l’avrebbe detto - è riuscita a cambiarmi». Ecco, un critico che cambia perché abita in un certo luogo non è vicino, tout court, all’idea stessa di letteratura? Oggi che la letteratura è in pericolo, Onofri in queste pagine capziosamente compone il luogo di una letteratura possibile e futura: sua, degli altri, di tutti.
Nel suo libro compaiono in effetti figure di scrittori il cui magistero stilistico è frutto di una particolare concentrazione spirituale: Mannuzzu, ad esempio, che scrive una pagina che risuona in ogni pagina di Passaggio in Sardegna: «Così capita che i vecchi perdono di vista la loro personale salvezza… perché più della loro vita e della loro anima amano le vite e le anime dei figli. Senza la cui salvezza - pensano quasi loro malgrado - non c’è salvezza che valga». Figli che si salvano: la letteratura per Onofri è anche al di là di opere conchiuse, salde nella loro forma perenne: è qualcosa che resiste se si propaga collettivamente, costituita di individui mobilissimi, attenti: l’operaio «kantiano» di Ittiri che arriva trafelato a Sassari e, smontato dal turno, corre a lezione di critica letteraria; lo scrittore Fois, che sfida e aggira la scrittura esemplare della Deledda e di Satta e affronta il suo Nulla-Nuoro «come un destino o una tentazione»; la poetessa Maria Chessa Lai che scrive in catalano: «Los fills/ que neixen/ quan venen al mòn/ la mare los fa/ mes sòn altra gent» (I figli che nascono e vengono al mondo, la madre li fa ma sono altra gente)…
In questa famiglia tutt’altro che paradigmatica, e in questo luogo particolare, Onofri stabilisce il principio generale che la letteratura non sia estinta né vada estinguendosi, e formalmente si oppone a ogni ipotesi di discontinuità (di vecchio stampo adorniano) in nome d’un mai sopito idealismo desanctisiano: pena e letteratura, umanità e letteratura, civiltà e letteratura sono la stessa cosa. Così di un sardo a contraggenio come Gramsci, «ravvivato dalla forza della disperazione» (secondo Gobetti), Onofri scrive: «mi chiedo se possa esserci ora qualcosa di più necessario, in una nazione travolta dall’immoralità, ove è già tramontato persino il concetto di persona, di quell’antico sentimento della virtù». Compiuto, in certo modo estinto con lui, questo sentimento della virtù è tuttavia «necessario» per noi, dunque letteralmente inestinguibile, perlomeno come aspirazione.
Anche nelle sue parti leggere o leggerissime -le divagazioni sui fritti d’anemone, la carne di asinello, la malvasia profumata del Ciecone - questo libro su un luogo felice, o più probabilmente felice che infelice, è sostenuto da una costante interrogazione morale. I luoghi stessi - Bosa placida accanto «all’ozioso fiume Temo», Oristano dentro «un gioco d’acque e di stagni» - sono messi sistematicamente alla prova di quell’anti-luogo che è oggi il mondo: «Il vuoto è sotto gli occhi di tutti: è diventato addirittura popolare». Niente è del tutto idillico o ideale in quel «paesaggio ideale» che è la Sardegna di Passaggio in Sardegna. E niente è del tutto «popolare» nella stessa concezione dell’umano che un critico, sottilissimo, come Onofri, esprime ed elabora nel suo libro più creativo: la letteratura non è il vuoto e, oggi più che mai, non è sotto gli occhi di tutti.